I DOMENICANI A RUVO: dall'ospizio
al convento
L'insediamento
A metà Cinquecento
Ruvo mantiene intatta la fisionomia di cittadina medioevale. Cinta da poderose
mura intervallate da torri, si apre al territorio circostante attraverso
quattro porte maggiori e numerose "portelle". Due le principali
emergenze architettoniche, a non molta distanza tra loro, che s'impongono
sul profilo urbano traducendo anche visivamente i poli di potere della città:
la Cattedrale romanica, con l'annessa residenza del vescovo, sul limitare
nord est dell'abitato ma compresa nel sistema difensivo, e il castelIo,
fuori dalle mura, di origine normanna e con rifacimenti svevi, che va ormai
gradualmente perdendo la sua funzione originaria per trasformarsi in palazzo
del feudatario. La fase inizale del dominio dei Carafa coincise con la rinascita
della città. Innanzitutto l'incremento demografico, in linea con
la tendenza generale, sembra indicare una crescita non solo quantitativa
ma anche qualitativa: la popolazione passa dai 575 fuochi (cioè nuclei
famigliari) del 1535 ai 1571 fuochi di fine secolo con una popolazione di
circa 10.000 anime. Gli effetti si rendono visibili nella forma fisica della
città costruita. Tra Cinque e Seicento si assiste infatti ad un "rinascimento"
che incide sull'intero tessuto urbano medioevale e conferisce alla città
l'aspetto che manterrà sostanzialmente intatto sino ai giorni nostri.
Numerose le iniziative edilizie promosse dal patriziato locale che ruota
intorno ai casati Caputi, Avitaja, Griffi, Miraglia, Rocca, Cijani, dell'Aquila,
de Feulis, Mondelli, Modesti, ecc...: con la edificazione delle proprie
dimore essi concorsero a conferire alla città il volto moderno. A
fine Seicento, il processo di trasformazione può dirsi in gran parte
concluso se annota il Pacichelli: "Sta hora [Ruvo] ben fabricata,
e tutta piena, con le regolate dispositioni de' Patrizi, de' Popolari, de'
Plebei" aggiungendo però subito, forse riferendosi soprattutto
alle case dei popolari e dei plebei, che le case non sono di "perfetto
disegno" e si affacciano per giunta su vie "malinconiche"
e poco pulite. L'altro polo del potere, quello religioso, si incarna nella
figura dell'Ordinario e nel Capitolo della Cattedrale, spesso fra loro in
situazione conflittuale. Il Cinquecento vede succedere sulla cattedra episcopale
i tre vescovi-parenti de Mirto di origine napoletana: Giuliano(1512-1520),
Giovan Francesco(1520-1578), Orazio(1578-1589). Un governo nepotistico che
certo non giovò alla diocesi soprattutto dal punto di vista morale:
Giovan Francesco fu accusato, a torto o a ragione, di gravi mancanze e il
suo successore fu rimosso per indegnità da papa Sisto V nel 1589.
E' questo, in linee generali, il quadro istituzionale e religioso in cui
si inseriscono a metà Cinquecento i Domenicani, forse sollecitati
a stabilirsi a Ruvo da facoltosi cittadini. Le strette maglie di un tessuto
urbano sufficientemente saturo, sebbene già avviato a radicale trasformazione,
saranno certamente apparse poco adatte a fornire gli ampi spazi necessari
all'edificazione intra moenia dell'insula conventuale domenicana
e per di più pregiudizievoli di ogni altro eventuale futuro ampliamento.
Fu scelta una posizione strategica a cerniera tra città e campagna
che, se da un lato consentiva il controllo del territorio e delle due importanti
vie di comunicazione dirette la prima a Palo e a Bitonto e la seconda ad
Altamura, dall'altro garantiva un pieno contatto con il centro abitato trovandosi
molto vicino alla Porta di Noja. I frati dovettero da subito godere della
benevolenza e della protezione del patriziato locale se numerosi lasciti
e donazioni consentirono l'edificazione e l'abbellimento dell'imponente
complesso conventuale e della chiesa; quest'ultima, dedicata al culto della
Madonna del Rosario, s'impose certamente non solo come il centro spirituale
ma anche come simbolo del prestigio culturale ed economico. Per l'assoluta
mancanza di documenti, poco sappiamo circa l'attività culturale promossa
dai padri di Ruvo e sugli insegnamenti filosofici e teologici da essi impartiti;
va comunque detto che la presenza dei P.P Predicatori a Ruvo favorì
certamente la vocazione di molti giovani che abbraciarono la regola di San
Domenico.
* * *
La costruzione del complesso conventuale coincide dunque con il radicarsi
della comunità religiosa nella realtà cittadina e con il costante
progressivo arricchimento del patrimonio immobiliare e fondiario che avviene
soprattutto grazie alle continue e cospicue donazioni ad pias causas
e alla loro oculata gestione. Sebbene la documentazione ufficiale faccia
risalire la fondazione del convento di Ruvo al 1560, le sanzioni definitive
si avranno solamente nel 1629 e nel 1647. Nel 1576 il domenicano Serafino
Razzi, nel corso di un viaggio, ebbe modo di passare per Ruvo, di visitare
la comunità e di annotare che i confratelli vi stavano costruendo
un ospizio cioè un primo nucleo conventuale. In effetti, almeno agli
inizi, non può parlarsi per Ruvo di un convento nel senso proprio
ma di un "luogo" non assimilabile alle funzioni più complesse
dal punto di vista religioso e amministrativo di una "domus regularis".
Particolarmente avara è la documentazione d'archivio in nostro possesso
riferita esplicitamente alle varie fasi costruttive del convento; queste
comunque si protrassero certamente per ben oltre un secolo e potranno dirsi
concluse solo intorno ai primi decenni del Settecento. Tra i problemi attualmente
irrisolti rimane quello legato alla "paternità" cioe all'autore
del progetto delle fabbriche. Sappiamo, invece, che esistevano delle prescrizioni
generali riguardanti l'edilizia conventuale domenicana. Ovviamente queste
ultime dovevano tener conto anche delle disposizioni papali, a cominciare
dalla bolla di Paolo V del 25 ottobre 1616 che contiene precise prescrizioni
cui attenersi circa i loci et officinae di ogni domus regolaris.
Essa infatti poteva definirsi tale solo se all'interno delle sue mura avesse
compreso insieme agli spazi per il culto e i luoghi di preghiera, gli orti
e i giardini, i locali di servizio e di vita comune e inoltre le celle per
un adeguato numero di frati e la comoda abitazione per il priore. Le celle
dei religiosi dovevano inoltre essere semplici e prive di ogni arredo ed
elemento che potesse distogliere dalla contemplazione, dalla preghiera e
dalla conduzione di una vita claustrale improntata alla massima semplicità
e modestia. La
facciata principale del convento è allineata lungo l'antica via per
Bitonto, attuale via Madonna delle Grazie; su di essa si apre il portale
che immette all'austero chiostro scandito da cinque arcate, su pilastri
squadrati. Al centro vi è la cisterna per la raccolta delle acque
piovane. Dal chiostro si accede direttamente ai numerosi locali di servizio:
nove magazzini, la cantina "per conservar vino", il sotterraneo
usato per "casolaro" cioè per la lavorazione del latte.
Sempre nel chiostro vi sono cinque fosse sotterranee "ad uso di conservar
biade". A destra si trova il grande "stanzone per refettorio con
dispenza attaccata ad esso" e una fossa per la biada. Il refettorio,
ora ingombro da varie tramezzature, ha uno sviluppo di ben 22 metri ed è
coperto da volta a botte. Vicini sono anche la cucina, la panetteria, il
forno per cuocere il pane e ancora una fossa per biada. Intorno al cortile
scoperto si dispongono i numerosi locali per gli attrezzi, rimessa, stallone
con pagliaio, stanza per il "vetturino", un "sottano con
due cammini da conservare ulivi" e i tre "palmenti" cioe
i locali destinati alla produzione vinaria dove si trovano i torchi. Il
collegamento del cortile con l'esterno è assicurato dall'entrata
di servizio ancora oggi esistente con portale seicentesco sull'attuale via
Valle Noè. L'accesso al primo piano è consentito da una piccola
scala di servizio, collegata anche alla chiesa, e soprattutto dalla "scala
maestra" balaustrata di solenne impianto con ruotamento a C composta
da tre rampe e due pianerottoli. Quest'ultima immette sul grande corridoio
che gira intorno al chiostro sul quale si dispongono le diciassette celle,
alcuni stanzoni e l'ambiente "pe' luoghi comuni". Un lato del
corridoio si collega al coro della chiesa all'interno della quale sono ancora
visibili, sui muri laterali all'altare maggiore, le "gelosie"
da dove i frati infermi potevano assistere alle celebrazioni religiose.
Al secondo piano, corrispondente alla parte sottostante i tetti sostenuti
da capriate di legno, si trovavano alcune stanze "a tavolato"
e il "coro d'inverno" il luogo per la preghiera comune nel rigido
periodo invernale.
* * *
L'impianto
conventuale rimane sostanzialmente immutato pur trasformato dopo il 1860
e ancora agli inizi del Novecento per adeguarlo a scuola pubblica. I fornici
del chiostro risultano tompagnati già dalla fine del secolo scorso
forse per motivi di consolidamento più probabilmente per adattare
i vani ad aule come risulta anche dalle numerose tramezzature interne che
ne hanno completamente modificato i rapporti proporzionali. Solo il fornice
centrale di ogni lato risulta libero e lascia intuire più che intravedere
l'originaria osmosi tra chiostro e portico. Sul cortile dove vi erano i
numerosi magazzini, stalle, rimesse, ecc... ora vi è una struttura
in cemento della metà del nostro secolo con aule e altre servizi
della scuola media. Anche il lato ad est, quello che si affacciava agli
orti e che ora guarda al nuovo plesso scolastico "B. Di Terlizzi"
sorto su parte dei "giardini" del convento, risulta completamente
modificato. Numerose le analogie strutturali con altri conventi dell' Ordine
in Terra di Bari a cominciare dal Convento di S. Maria Maddalena di Barletta
oppure il Convento di S. Domenico di Soriano in Molfetta oppure la Chiesa
del Gesù a Bari o la Chiesa di Sant'Angelo nella stessa Ruvo.
* * *
Gli ultimi decenni del Settecento vedono ribaltate le sorti del convento
di Ruvo che sembra ora per la prima volta dimenarsi in una situazione di
grande crisi e difficoltà di ordine economico che le vicende politiche
e storiche di fine secolo non faranno che aggravare e rendere irreversibili.
Alle congiunture sfavorevoli, inizialmente determinate dal susseguirsi di
cattive annate agrarie e dalle conseguenti perdite di rendite certe, i padri
cercano di reagire attivando gli unici strumenti a loro disposizione: la
vendita di numerose proprietà e la contrazione di cospicui debiti.
Nel 1792 il convento si trovò indebitato con numerosi "magnifici"
di Ruvo per una somma poco più superiore ai 1300 ducati. La situazione
di crisi che si era venuta determinando ebbe come riflesso immediato il
blocco di tutte le iniziative edilizie in atto e a rimetterci fu soprattutto
la chiesa non ancora ultimata nelle decorazioni interne e ancora priva di
gran parte del paramento esterno della facciata. Non è più
tempo di progetti e di interventi di ampio e lungo respiro: i fatti storici
incalzano, la rivoluzione scoppiata in Francia prepara ormai una radicale
trasformazione in tutto il vecchio continente e in ltalia in particolare.
Dapprima anche i Domenicani di Ruvo, come tutti i luoghi pii, ecclesiastici
e secolari, sono impegnati a sostenere economicamente lo sforzo dello stato
intento a respingere l'avanzata dei francesi nel Regno. ln ottemperanza
alle disposizioni regie emanate nel 1793 il consiglio dei padri decide di
alienare, come fanno altre Confraternite, una cospicua parte del proprio
patrimonio immobiliare e con il ricavato della vendita fare prestito al
Regio Fisco alla ragione del 4%. Un sacrificio inutile: i francesi occuparono
il Regno e lo stesso convento di Ruvo conobbe ne 1797, come molti altri,
la dolorosa esperienza dell'occupazione delle truppe d'oltralpe.
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