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2 Una lunga conversione.

2.1 Inizia la lunga crisi che precede la conversione.
2.2 Il tormentato distacco dalla famiglia.

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2.1 Inizia la lunga crisi che precede la conversione. E' significativo che, anche in un racconto agiografico come quello della Vita prima di Tommaso da Celano, il brusco cambiamento di vita, che sempre riveste una conversione, si sviluppi per Francesco lungo un itinerario fatto di episodi molteplici per un periodo di quattro o cinque anni.
In questo lungo lasso di tempo, l'esperienza del dolore fisico nella malattia portò Francesco a riflettere sul destino umano, imponendogli di manifestare esteriormente la sua conversione con la rinuncia al denaro e ai beni materiali.
La prigionia di Perugia. Se la cronologia della lunga fase della conversione è particolarmente confusa nei biografi, tuttavia si può iniziare con il racconto dell'episodio della prigionia di Perugia.
Francesco si mostrò gentile ed affabile con un miles, cioè un cavaliere, invece scostante e ingiurioso, probabilmente uno di quei nobili del contado o di città alleate chiamato dal comune di Assisi per la disastrosa battaglia di Ponte San Giovanni.
Mentre i compagni di prigionia si avvilivano e si rattristavano, Francesco, lieto e gioviale per natura, non si lasciava cogliere dalla depressione e si mostrava addirittura allegro, anche se in carcere. Uno dei prigionieri, che evidentemente non ne poteva più di passare le giornate fra tanti disagi, sbottò e gli diede del pazzo per quel comportamento. Francesco gli rispose allora con tono vibrato:

«Cosa credete che diventerò nella vita? Sarò adorato in tutto il mondo!».

[Leggenda dei tre compagni II,4:4]
Naturaliter erat hilaris et iocundus
La gioia era un tratto tipico del carattere di Francesco. Se fu una qualità innata, certo Francesco la migliorò con un attento autocontrollo, deciso a sublimare ogni dolore e patimento nel corpo e nell'anima con una ferma superiorità interiore.
Quando ancora pensava di divenire un principe mostrava le virtù del coraggio e della sopportazione fisica, costruite nell'esercizio delle armi attraverso un lungo allenamento ai pericoli e al dolore delle ferite.
Quando prenderà fermamente la decisione di seguire l'esempio di Cristo, farà ricorso alle virtù della serena pazienza nel sopportare la volontà altrui, alla virtù dell'ilare obbedienza che domina e piega sia l'ambizione che la superbia di sapersi migliore degli altri.
Le aspirazioni di un ventenne. La lunga detenzione non piegò quindi i sogni del nostro ventenne ben deciso a farsi strada maneggiando la spada. Finalmente, dopo un intero anno, le porte del carcere perugino si aprirono. Francesco e i suoi compagni tornarono in Assisi, forse proprio in seguito alla carta di pace stipulata nel 1203.
I familiari riabbracciarono un figlio gravemente ammalato. Poi piano piano Francesco migliorò: appoggiandosi a un bastone mosse qualche passo dentro casa, quindi, un po' più rinfrancato, uscì; tuttavia ora

«osservava con più attenzione la campagna circostante, ma la bellezza dei campi, l'amenità dei vigneti e tutto ciò che è gradevole alla vista non gli davano più alcun piacere. Era stupefatto di questo mutamento repentino e si trovava a pensare che fossero degli sciocchi tutti coloro che amavano simili spettacoli».

[Vita prima, di Tommaso da Celano I,II,3:3-5]

Tommaso da Celano prospetta questa lunga pausa di inattività - anomala per Francesco - come l'inizio di una profonda crisi piena di ripensamenti e di decisioni subito prese e abbandonate. Tale reazione non sembra soltanto apatia di convalescente, ma l'avvio, voluto dal Cielo, di un totale rivolgimento interiore. Francesco

«cominciò a pensare di non valere niente e a disprezzarsi, a non tenere in nessun conto tutto quello che prima aveva amato e ammirato. Tuttavia non proprio del tutto, perché non aveva ancora sciolto uno a uno tutti i lacci della vanità».

[Vita prima, di Tommaso da Celano I,II,4:1-2]
Le malattie e il corpo per Francesco
Francesco è un uomo malato.
Soffrirà fino alla morte di due mali: agli occhi da un lato, di affezioni del sistema digestivo - stomaco, milza, fegato - dall'altro.
I viaggi, le prediche, le fatiche, le pratiche ascetiche aggraveranno sempre più il suo cattivo stato di salute.
Ma Francesco non ha cercato sistematicamente di umiliare il corpo.
Il corpo è la fonte e lo strumento del peccato. Dunque sotto questo aspetto è il nemico stesso dell'uomo:

«vi sono molti, i quali quando fan peccato o ricevono alcun torto, spesso incolpano il nemico o il prossimo. Ma non è così: poiché ognuno ha in suo potere il nemico, cioè il corpo, per mezzo del quale pecca».

[Ammonizioni, 10]

Ma esso è anche l'immagine materiale di Dio e più in particolare del Cristo:

«Considera, uomo, in quale stato eccellente ti ha messo il Signore, poiché ti ha creato e formato a immagine del suo Figliuolo diletto secondo il corpo, e a sua somiglianza secondo lo spirito».

[Ammonizioni, 5]

Quindi bisogna mortificare il corpo ma per porlo, come l'anima, a servizio dell'amore di Dio.
Il corpo è in definitiva, come tutte le creature, frate corpo, e nostre sorelle, le malattie sono occasioni indispensabili di salute. Ma non bisogna compiacersene tanto da divenirne schiavi se esse rendono il corpo inutilizzabile al fine della salvezza e dell'amore.
Tentare l'avventura cavalleresca. Francesco, in prigionia, aveva desiderato rivedere la sua Assisi, gli amici, i genitori, la famiglia. E da libero, invece, tutto gli era estraneo e indifferente. Ma soprattutto gli pareva di non conservare più uno scopo nella vita. Puntare a far soldi come il padre o il fratello Angelo? Proprio non gli piaceva, né gli sarebbe bastato a riempire l'esistenza. Diventare famoso combattendo? E come fare dopo aver constatato la fragilità del suo fisico? Meglio perciò avere pazienza, sperare che tornasse il gusto dei divertimenti di prima, riprendere le forze, cominciare di nuovo a galoppare e ad allenarsi con le armi?
La Leggenda dei tre compagni ci dice soltanto che dal ritorno ad Assisi trascorsero alcuni anni prima che gli si presentasse di nuovo la grande occasione per esaudire i suoi sogni di gloria.

«Un nobile di Assisi si accingeva a prendere le armi per andare a combattere in Puglia, bramoso di fare soldi o forse di aumentare la sua fama». Saputa la cosa, Francesco pensò subito di unirsi al suo concittadino e «nella speranza di essere creato cavaliere da quel conte gentile, si dedica ad allestire un corredo di stoffe il più possibile preziose perché, pur se meno ricco, nello spendere era ben più largo di quel nobile».

[Leggenda dei tre compagni II,5:1-2]
Chi era il nobile di Assisi?
In Italia meridionale il papa Innocenzo III si era scontrato con le truppe imperiali guidate da Marcovaldo d'Anweiler, per due questioni particolarmente delicate e importanti: il recupero del patrimonio della Chiesa e la tutela del piccolo figlio di Enrico VI, il futuro Federico II. Il pontefice aveva allora pensato di appoggiarsi a un disinvolto uomo d'arme, Gualtiero di Brienne. Questi, avendo sposato la figlia di Tancredi di Lecce, mirava a ottenere i grandi feudi di Puglia: ben volentieri cominciò a riunire in un esercito raccogliticcio quanti volessero partecipare alla spedizione; il nobile di Assisi era uno di questi.
Sogni e visioni segnano le tappe della conversione. Francesco bruciava dal desiderio di mettersi in cammino e una notte fece un sogno [Immagine Giotto 3.La visione del palazzo pieno d'armi]: qualcuno lo chiamava per nome e lo trasportava in uno splendido palazzo dove c'era una bellissima sposa: un palazzo pieno di armi, di scudi splendenti appesi alle pareti, e di tutto quello che serviva a un cavaliere per armarsi nel modo migliore. Incantato, pieno di felicità e di silenzioso stupore - a casa era abituato a vedere solo rotoli di stoffe, commenta Tommaso da Celano -, alla fine si risolse a chiedere a chi appartenessero quelle armi luccicanti e quel palazzo meraviglioso. Gli fu risposto che quel palazzo era suo - dunque era sua anche la sposa - e dei suoi cavalieri. Svegliatosi pieno di entusiasmo era sicuro che quel sogno fosse un ottimo presagio e che lo attendesse una eccezionale fortuna: «Sono certo di diventare un gran principe». Francesco ruppe ogni indugio e decise di partire subito per la Puglia.
Non pensò nemmeno un istante che la visione fosse stata mandata da Dio e che dunque avesse un significato simbolico ben diverso.
Il sogno per l'uomo medievale
DA PREPARARE.
INSERIRE LA CONCEZIONE DEL SOGNO NEL MEDIOEVO: piccolo riquadro con rimando a una pagina completa.
Il giorno prima del sogno del palazzo e delle armi, mentre era febbrilmente ansioso di mettersi in marcia, Francesco aveva donato tutti i costosissimi abiti nuovi, lussuosi e sgargianti che aveva preparato, a un cavaliere povero [Immagine Giotto 2.Il dono del mantello al povero]. Ed era stato certamente quel dono, come suggerito dalla Leggenda dei tre compagni, a provocare il sogno.
Il giovane mercante pensava a grandi imprese: si vedeva già cavaliere e perciò si comportava in modo conforme al futuro agognato, chinandosi magnanimamente a rivestire il cavaliere caduto in miseria, come se questi fosse di un gradino sociale inferiore al suo. Il dono di Francesco si lega perfettamente alle riflessioni di quando, pentito di aver scacciato un povero dalla bottega, si era rimproverato di non essere stato coerente con l'immagine del perfetto cavaliere cui tendeva con impegno.
Mentre i biografi hanno indicato in prove tanto sorprendenti di cortesia e nobiltà d'animo i segni premonitori della santità, Francesco era semplicemente felice di suscitare ammirazione. Il sogno esaudiva tutti i suoi desideri, anzi gli concedeva più di quanto coscientemente avesse mai sperato: si vedeva non soltanto cavaliere, ma principe, non compagno alla pari di altri cavalieri, ma addirittura loro capo. E per i grandi meriti acquisiti in guerra credeva di aver già sposato una donna bellissima che attendeva solo il suo ritorno.
Un nuovo san Martino
Vero o falso che sia, il gesto di Francesco che dona i suoi vestiti a un povero cavaliere coperto di stracci tende comunque a farne un nuovo san Martino.
Il biografo Tommaso da Celano non manca di stabilire questo parallelo, risolvendolo anzi a vantaggio di Francesco che ha donato per intero il suo mantello, mentre Martino di Tours ne aveva ceduto soltanto la metà.
E' una differenza significativa tra due personaggi diversi: Francesco è fin dall'inizio l'uomo del dono integrale. Ma è anche il segno di due epoche dissimili. "Alla svolta fra il IV e il V secolo, il bisogno materiale e spirituale della società occidentale è la partizione dei beni, una nuova distribuzione fra vecchi ricchi e nuovi poveri; alla svolta fra XII e XIII secolo il problema è l'accettazione o il rifiuto di ciò che procura il denaro al ritmo accelerato della diffusione dell'economia monetaria".
I sogni di gloria si infrangono. Francesco partì, ma non andò molto lontano. A Spoleto cominciò a non sentirsi bene, evidentemente preoccupato dal lungo viaggio che lo attendeva. Decise di riposarsi e nel dormiveglia gli sembrò che qualcuno gli chiedesse dove pensasse di andare. Saputa la meta nacque un breve dialogo fra quel qualcuno e Francesco:
«Chi credi che ti possa fare più del bene, un signore o il suo servo?»
«Il signore»
«E allora perché lasci il signore per seguire il servo e il principe per il suo sottoposto?»
«Signore, cosa vuoi che io faccia?»
«Ritorna nella tua città e là ti sarà detto cosa devi fare, perché quella visione deve essere interpretata in un altro modo».
[Leggenda dei tre compagni II,6:6-8]

Francesco anche nella visione pensava da vassallo, come un cavaliere al servizio del suo signore: Dio era per lui un gran principe. Destatosi del tutto, rifletté a lungo per tutta la notte. All'alba la decisione era presa: montò a cavallo e tornò ad Assisi. Aveva ormai cambiato del tutto i suoi progetti: non gli importava più nulla della spedizione in Puglia; voleva soltanto conoscere e seguire la volontà di Dio.

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2.2 Il tormentato distacco dalla famiglia. Al rientro ad Assisi, forse proprio per arrestare domande indiscrete e nascondere il disagio interiore - dov'erano difatti tutte le prodezze di guerra che dovevano fare del mercante un cavaliere? -, Francesco moltiplicò i festini con gli amici e in uno di questi fu eletto «re del banchetto».
Ma questo capo profano si allontanò a poco a poco dai suoi sudditi per prepararsi, recandosi in meditazione in una grotta remota, a una nuova vita. L'atto solenne che segnerà la rottura e la liberazione dalla vita precedente sarà la rinuncia pubblica a tutti i suoi beni, nuda metafora della sua assoluta spoliazione. Ma torniamo alla cronaca.
Il tema delle nozze. Una sera, al termine di una cena, l'allegra brigata percorreva, vociando e cantando, le quiete e buie strade di Assisi. Nel corso di questa passeggiata Francesco, assorto nelle sue riflessioni, si distanziò dai compagni e si fermò per volere divino. Gli amici gli chiesero:

«A cosa stavi pensando che ti abbiamo perso? A prender moglie?».

E Francesco, con una delle sue iperboliche affermazioni, rispose di slancio:

«Sì, è vero. Stavo pensando di prendermi in sposa una fanciulla, ma la più nobile e ricca e bella che abbiate mai visto!».

[Leggenda dei tre compagni III,7:6-7]

Tutti si misero a ridere e il discorso finì lì.
Le allegre brigate
La tradizione agiografica è stata in grado di assimilare solo pochi elementi del gusto di Francesco per la cultura cortese, in particolare la sua abitudine di parlare e di cantare in lingua "gallica", idioma delle cantilene e dei romanzi cortesi. Ovviamente non possono essere assolutamente ricordati i festini, le scorribande notturne e altre occupazioni licenziose che erano, insieme con i ludi equestri, i passatempi preferiti di tante brigate di giovani, composte per la maggior parte da cavalieri non ancora sposati, verso i quali le società comunali facevano mostra di grande indulgenza, fino a chiudere un occhio su violenze sessuali e pratiche come l'omosessualità, che la Chiesa, invece, non era disposta a tollerare.
Le nozze con la povertà. La Leggenda dei tre compagni aggiunge che Francesco diede questa risposta perché ispirato da Dio, dato che sua sposa fu poi la vita religiosa [Domenico Veneziano da "Medioevo": San Francesco sposa la povertà, di Domenico Veneziano, secolo XV, Monaco, Alte Pinakothek]. Ma la reazione era del tutto conforme agli ideali dell'insofferente mercante: desiderava sposare una donna innanzitutto nobile, in modo da uscire dal suo rango e fare un salto di classe sociale. Forse Francesco pensava ancora al palazzo e alle armi, e alle misteriose parole del sogno di Spoleto.
La sposa promessa
L'episodio narrato nella Leggenda dei tre compagni chiarisce bene l'atteggiamento dei giovani cavalieri nei confronti del matrimonio.
Sposarsi era infatti per questi giovani di buona famiglia l'atto più grave della loro vita, un momento insieme temuto e agognato. Il matrimonio, infatti, imponeva la rinuncia ai piaceri della brigata e dell'avventura cavalleresca, ma per un cavaliere di estrazione mediocre poteva anche rappresentare un'irripetibile occasione di scalata sociale, nel caso la moglie fosse di più alto lignaggio o di famiglia particolarmente agiata.
A confronto con la povertà. La Leggenda dei tre compagni [III,8,9] registra il lento e difficile abbandono delle antiche abitudini. Il futuro santo continuava a lavorare a bottega, ma era diventato più pio, moltiplicando le elemosine e regalando persino la camicia se si trovava sprovvisto di denaro. Poi donò a sacerdoti poveri la suppellettile di cui le chiese avevano bisogno.
Se prima smaniava di unirsi agli amici piantando in asso i genitori a metà pranzo, ora era diventato casalingo: in assenza del padre, di cui aveva gran timore, metteva sulla tavola più pani rispetto ai commensali - i pani allora servivano da piatti - per avere maggiori avanzi da distribuire ai bisognosi. La madre, che lo prediligeva, sorrideva e lasciava correre.
Durante il lungo periodo di incertezza e di crisi in cui si trovava, Francesco cercò aiuto. Si confidò con un amico e chiese spesso consiglio al vescovo Guido. Si ritirò in una grotta a pregare e a meditare. Ma non era ancora pronto a dimenticare del tutto il suo passato; amava la vita, gli agi, il lusso in cui viveva. Sapeva di essere di salute precaria e perciò di avere bisogno di tante cose.
Nella grotta dove si raccoglieva, il demonio ossessivamente gli riportava alla memoria «una donna d'Assisi gobba e deforme». Sarebbe diventato anch'egli così se avesse continuato nei suoi propositi, ma, a 25 anni, non sapeva accettare il degrado fisico.
Come si diventava poveri ed emarginati
Francesco dovette rimanere molto colpito dai rovesci di fortuna che il giro vorticoso del denaro comportava, creando accanto ai vecchi poveri (contadini, salariati, malati, persone sole) sempre dei nuovi (ricordiamo il cavaliere cui Francesco aveva donato l'intero corredo).
Si poteva diventare poveri in tanti modi. Bastava non riuscire a restituire in tempo una somma ricevuta in prestito (forse lo stesso padre di Francesco, oltre a vendere stoffe, faceva l'usuraio). Così come bastava una sommossa, una casa bruciata in uno dei frequenti incendi (si usava molto legno nelle costruzioni) per andare in rovina. Ma anche un semplice braccio rotto - in assenza di ingessature - era sufficiente per entrare a far parte, non potendo più lavorare, della categoria degli storpi che chiedono la carità [Dipinto di Brueghel].
Così, oltre ai cittadini laboriosi, girava per Assisi la folla cenciosa e lurida degli accattoni, che Francesco ogni giorno incontrava con ribrezzo e compassione; e con loro erravano dementi e pazzi, chiamati in modo sbrigativo indemoniati.
Un pellegrino a Roma. Durante la lunga crisi che precedette la conversione, Francesco compì un pellegrinaggio a Roma. Entrato in San Pietro e sembrandogli troppo modeste le elemosine, spiccioli e monetine, donate al Principe degli apostoli che doveva essere, secondo lui, «adorato in modo magnifico», gettò con impeto una manciata di denaro che, sparpagliandosi a terra provocò, con il rumore, la meraviglia degli astanti. Anche se nell'ambito della devozione religiosa, si trattava ancora di un gesto smisurato per suscitare ammirazione: l'idea era di onorare un santo perché era un gran principe.
Il giovane mercante aveva provato anche a fare il povero, barattando per qualche ora i suoi abiti con quelli di un accattone. Si era poi seduto sui gradini di San Pietro a chiedere la carità, in francese, in mezzo agli altri mendicanti presenti. Francesco, miserabile nell'aspetto, non lo era certo nel cuore: perciò supplicava e chiedeva la carità non in volgare, ma in francese.
La Leggenda dei tre compagni [III,10] sottolinea ancora una volta il ricorso di Francesco alla lingua dei paladini e dei cavalieri quando ha bisogno del loro modello per superare di slancio paura e vergogna. Gli ideali di riferimento restano sempre la generosità, la lealtà, il coraggio disinteressato.
L'incontro con un lebbroso. Un giorno, mentre cavalcava nei paraggi di Assisi, Francesco incontrò un lebbroso, riuscì a farsi forza e smontò da cavallo. Gli diede del denaro e gli baciò la mano, accettando di farsi abbracciare.
Pochi giorni dopo prese la decisione di incontrare di nuovo i lebbrosi. Raccolse una gran quantità di denaro e andò a trovarli nel loro ospizio, di nuovo baciando le mani piagate, facendo loro l'elemosina e lasciandosi abbracciare.
E' un cambiamento radicale. Vent'anni dopo, morente, inizierà il suo Testamento indicando, con poche e dense parole, in quell'esperienza il principio di una nuova vita:

«Il Signore concesse a me, frate Francesco, d'incominciare così a far penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E poi, stetti un poco, e uscii dal mondo».

Il castigo di Dio
Fuori Assisi due lebbrosari - di Santa Maria Maddalena e di San Salvatore - ospitavano i respinti da tutti, uomini e donne ripugnanti alla vista: si riteneva che i lebbrosi fossero tali per castigo di Dio, per i peccati commessi o perché concepiti nel peccato. Per questo, camminando, erano costretti a sbattere certe nacchere, perché i sani riuscissero a evitarli, scappando per tempo [Clip video da Rossellini].
Nelle sue solitarie passeggiate Francesco cercava di stare sempre lontano dalle loro abitazioni; spronava il cavallo per non vedere, per non ricordare; e scappava turandosi il naso.
Il crocifisso di San Damiano. «E poi, stetti un poco, e uscii dal mondo»: in questa breve frase Francesco riassunse ancora qualche avvenimento che lo vide irresoluto, legato alla famiglia, al proprio ambiente, timoroso della reazione paterna, angosciato; credeva di aver trovato finalmente una strada, ma era ancora una falsa partenza.
Un giorno entrò nella chiesetta di San Damiano [Immagine San Damiano ai tempi di Francesco: Bigaroni]. Si mise a pregare intensamente di fronte ad un crocifisso dipinto su tavola (giunta fino a noi ed ora conservata in Santa Chiara). Il Redentore - secondo l'iconografia del Cristo trionfante, senza segni di sofferenza fisica - fissò l'osservatore con quieta dolcezza. Francesco credette che l'immagine si rivolgesse proprio a lui e gli parlasse [Immagine Giotto ad Assisi: 4.La visione in San Damiano]:

«Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va dunque a ripararla».

[Leggenda dei tre compagni V,13:7]
Un gesto simbolico: gettare danaro su una finestra
Chissà se in San Nicola, una chiesa di Assisi dove entrava spesso, Francesco abbia visto rappresentato uno degli episodi più famosi di quel santo: quando cioè, ancora giovane, ricco e bello, avendo saputo che un vecchio miserabile stava per avviare alla prostituzione le tre figliole per procurarsi di che campare, aveva gettato tre palle d'oro sulla finestra della povera casa in modo che le fanciulle potessero avere una dote e salvo l'onore. San Nicola è di solito rappresentato come un venerando vescovo dai capelli bianchi, con tre sfere d'oro in mano, a ricordo della sua generosa gioventù [Immagine di San Nicola].
Francesco fraintese di nuovo il significato simbolico delle parole: credeva di dovere salvare dalla rovina l'edificio materiale, non sospettando quale compito lo attendesse, ovvero salvare l'edificio spirituale, la Chiesa. Uscì tutto lieto. Sapeva finalmente cosa fare. Le parole misteriose del sogno di Spoleto cominciarono a chiarirsi. Poteva vedere per la prima volta chi lo chiamava e sentire pronunciare il proprio nome. Quello era dunque l'ordine che aspettava.
Come prima risoluzione diede del denaro al sacerdote che sedeva fuori dalla chiesetta perché ardesse sempre una lampada davanti a quel crocifisso, promettendo di darne dell'altro quando ce ne fosse stato bisogno. Poi di lì a qualche tempo caricò sul cavallo pezze di stoffe preziose, andò a Foligno e vendette tutto, cavallo compreso; tornò a San Damiano a piedi, libero e leggero. Volle consegnare a quel sacerdote di modeste risorse l'intera borsa di denaro, supplicandolo nello stesso tempo che gli permettesse di vivere con lui. Il pover'uomo ascoltò attonito e incredulo il racconto della conversione; non volle a nessun costo accettare soldi, temendo la prevedibile reazione di Pietro di Bernardone, e alla fine, pur con molte esitazioni, si lasciò persuadere a tenere il giovane con sé. Francesco allora buttò le monete sopra il davanzale esterno di una finestra.
La rottura brusca e dolorosa con il padre. La prolungata assenza di Francesco cominciava a preoccupare seriamente il padre. Quando Pietro venne a sapere dove viveva il figlio, provò insieme dolore, rabbia e amarezza: era stato davvero saggio investire su di lui tanto denaro? E poi cosa avrebbe combinato nella vita? Aveva sperato che il suo «francesino» diventasse un mercante ricchissimo e forse, chissà, un cavaliere. Eccolo invece già diventato un balordo e un vagabondo.
Pietro chiamò allora in aiuto amici e vicini, deciso a recuperare il figlio ribelle. Ma Francesco aveva previsto la furia del genitore e scappò in una caverna segreta preparata appositamente. Probabilmente qualcuno di casa - la madre? - lo aveva avvertito per tempo; forse la stessa persona che, durante una precedente volontaria prigionia nella grotta, durata un mese, gli aveva portato ogni giorno da mangiare.
Fu un tempo durissimo: il futuro santo esitava a rompere definitivamente con i suoi, abbandonare tutto, anche gli affetti più cari, per seguire una via verso cui si sentiva irresistibilmente attratto ma che insieme gli si presentava incerta. Piangeva, pregava, digiunava. Alternava momenti di angoscia ad altri di grande speranza. Finché un giorno trovò il coraggio di uscire ed affrontare il padre. Lungo la strada che lo portava a casa la gente che incontrava lo guardava sbalordita: stentava a riconoscerlo tanto era cambiato. Magro e pallido per i digiuni, sporco. Credendolo impazzito, cominciarono a tirargli sassi e manciate di fango, proprio come fosse un poveraccio. Per le piazze e le vie di Assisi corse voce del ritorno di Francesco. Quando il padre comprese che suo figlio era diventato lo zimbello di Assisi, corse fuori di casa, colmo di una rabbia cieca e di un dolore sordo: quella umiliazione, sentita anche sulla sua pelle, doveva terminare. Spinse egli stesso Francesco in casa, continuando a riempirlo di botte. Poi lo chiuse in un bugigattolo buio per giorni e giorni, deciso a farla finita con i capricci del figlio. Ma, durante una sua assenza, la moglie non rispettò le severissime consegne: impietosita, dopo aver cercato in ogni modo di convincere Francesco, aprì la porta e lasciò fuggire il figlio tanto amato [Immagine Benozzo Gozzoli a Montefalco]. Al ritorno del marito dovette affrontare la sua ira.
La rinuncia al padre Pietro. Pietro si sentiva tradito e beffato. Il suo dolore di padre si sfogò nella rabbia del mercante ingiustamente privato del suo: se davvero era una ribellione definitiva, che almeno Francesco restituisse il maltolto. Così Pietro decise di citare il figlio davanti ai consoli: corse al palazzo del comune [Immagine del palazzo del comune di Assisi] e lì espose le sue ragioni. I consoli spedirono un araldo da Francesco con il mandato di comparizione, ma lui rispose (si era già consigliato con il vescovo?) che, vivendo da penitente, non era più sottoposto alla giurisdizione comunale, ma a quella della Chiesa. I consoli, per non avere grane, presero per buona quella risposta. Non così il padre che si rivolse al vescovo. Costui fece chiamare Francesco che non poté rifiutare.
Avuti di fronte a sé padre e figlio, per dirimere la controversia il vescovo si rivolse al suo protetto - che intanto aveva pensato bene di portare tutto il denaro che gli rimaneva - esortandolo alla restituzione:
«La Chiesa non vuole che tu spenda per lei denari non tuoi, denari di tuo padre, forse ricchezza male acquistata [ndr: con l'usura?]»
[Leggenda dei tre compagni VI,19:10]
Francesco si disse d'accordo a restituire tutto. Entrato in una camera vicina, si spogliò completamente e così nudo, con gli abiti in mano sopra i quali aveva posato il denaro, tornò dal padre e dagli astanti, rimasti con il fiato sospeso.

«Ascoltate tutti e capitemi bene. Fino ad ora ho chiamato padre mio Pietro di Bernardone, ma dato che mi sono proposto di servire soltanto Dio rendo a Pietro di Bernardone il denaro per cui era tanto turbato e anche i vestiti che mi aveva dato; d'ora in avanti dirò sempre e soltanto: "Padre nostro che sei nei cieli e non più: padre mio, Pietro di Bernardone"».

[Leggenda dei tre compagni VI,20:3]

Il padre, deluso e furente di fronte alle parole definitive del figlio, afferrò vestiti e denaro e scappò a rinchiudersi in casa.
Il vescovo aprì allora le braccia e coprì quell'uomo nudo con il suo mantello. Il gesto fu immortalato da Giotto [Immagine di Giotto ad Assisi: 5.La rinuncia agli averi] (termine riassuntivo per indicare i pittori di Assisi), ed è presente in ogni ciclo pittorico che narri la vita del santo. Aveva infatti un significato più profondo del semplice soccorso, e così fu letto dagli spettatori di allora e dai lettori di sempre: segnava il distacco senza ritorno da parte di Francesco, che abbandonava la famiglia naturale per passare a quella spirituale della Chiesa.
Padre nostro
Anche Francesco patì molto per la brusca rottura con il padre: traccia di tale sofferenza profonda è il suo bellissimo commento al Padre nostro.
In tutti gli scritti Francesco privilegiò sempre il volto paterno di Dio e il suo amore vigile e costante per l'uomo, attraverso il sacrificio del Figlio diletto, fino alla salvezza finale che il tempo deve ancora dipanare. Da una parte, nella visione teologica di Francesco il sacrificio di Cristo non era coinciso con la morte, perché già tutto consumato sul Monte degli Ulivi, ubbidendo al Padre celeste, dall'altra, per l'uomo peccatore, il riscatto poteva avvenire solo seguendo l'orma lasciata dal Fratello: rimettersi, prendendo Cristo ad esempio, alla volontà del Padre. In tale rapporto, così originale, immediato e diretto traspare uno struggimento per un legame con il padre infranto per sempre ma non dimenticato.


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22 Dicembre 2003