Volendo dare la cifra della condizione delle donne nell'Occidente medievale,
Carla Casagrande brillantemente titola un suo saggio
La donna custodita, premettendo di non sapere quanto esse
«siano state quiete e silenziose tra le mura delle case, delle chiese e dei monasteri ad ascoltare uomini solerti e loquaci che proponevano loro precetti e consigli di ogni sorta». Tuttavia è certo che una determinata organizzazione sociale e ideologica affida proprio a quegli uomini il governo dei corpi e delle anime femminili.
Già dalla fine del XII secolo una forte azione pastorale e pedagogica si riflette nelle concitate parole che
chierici e
laici accumulano in una serie di testi rivolti alle donne, o meglio a coloro che devono
parlare alle donne e delle donne, per istituire un modello etico femminile adatto ad una società che si va complicando ed assestando in forme nuove e differenziate, un modello destinato a durare nei secoli.
Si parte da una doppia classificazione:
- figlie, mogli, madri in un'ottica familiare-sociale;
- vergini, donne sposate, vedove in un'ottica sessuale o spirituale-sessuofobica a seconda dei punti di vista.
Si giunge a denotare una serie di coppie di comportamenti e atteggiamenti che rappresentano i vizi e le virtù delle donne:
- vagabondare e custodire;
- essere curiose e essere vereconde;
- apparire e essere temperanti;
- essere nel mondo e essere nel monastero;
- essere oziose e essere operose e misericordiose;
- parlare e stare in silenzio;
- parlare in pubblico e parlare in privato o meglio pregare.
Tutte le virtù sono strumenti di custodia o di auto-custodia delle donne ovvero di
«corpi consegnati alla Chiesa o alla famiglia: vergini incontaminate completamente dedite alla vita dell'anima, mogli feconde che garantiscono la continuità del nucleo familiare, vedove capaci di dimenticare le esigenze della carne per vivere la vita dello spirito».
I principali protagonisti di questa rinnovata pedagogia nei confronti delle donne sono proprio i
frati mendicanti, a cui la Chiesa affida il formidabile compito di rispondere ai nuovi bisogni religiosi e ideologici della nuova società urbana. Occorre controllare le nuove forme di potere e di cultura che si affiancano a quelle tradizionali dei
signori, laici ed ecclesiastici, e dei
monaci. Ed allora, mentre Chiara trascorre
reclusa i suoi giorni a San Damiano, nelle piazze delle
città, nelle
università, nelle
corti, nelle
campagne, gli interlocutori di
eretici,
re,
contadini,
mercanti,
lavoratori,
intellettuali, sono
francescani e
domenicani che, innovatori, considerano le donne importanti nella loro
universale azione pastorale, e alle donne si rivolgono con grande attenzione.
In questo clima culturale è lecito attendersi che la necessità della custodia della donna medievale sia presente pervasivamente nella
regola di vita che la
vergine Chiara scrive per sè e per le sue
sorelle povere. Effettivamente se si confrontano le
suddette categorie di vizi e virtù attribuiti alle donne del XIII secolo, con i dodici capitoli della forma di vita
«trasmessa dal beato Francesco», secondo la quale le clarisse devono «vivere in comune nell'unità degli spiriti e con il voto dell'altissima povertà»,
si perviene alla verifica di questa tesi.
Se non si è già scelto di avventurarsi per il sentiero precedente, si provi allora ad attraversare uno stretto passaggio: è possibile procedere, senza bruschi salti, dalla verecondia delle donne e dalla custodia delle monache fino ai valori e alle virtù racchiusi nei concetti di
minoritas e di
fraternitas che Francesco vivifica con il suo esempio? Basti un solo indizio: è forse un caso che nel momento in cui i frati minori si stanzializzano, avendo già rinunciato ai rapporti gerarchici fra monaci e
priore, sentono il bisogno di designare alcuni loro fratelli come
custodi e
guardiani? Ma qui ci fermiamo segnalando la necessità di un'
analisi comparata fra la regola di Chiara e la regola di Francesco.