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Le case di Bari vecchia > Il rapporto città-campagna a Bari nel medioevo

Mura, case, orti, vigne, oliveti: il rapporto città-campagna a Bari nel medioevo.

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Il ruolo dei monasteri fuori le mura di Bari: il legame con la campagna.
Case, orti, vigne, oliveti: il patrimonio della basilica di San Nicola.
Dentro e fuori le mura: il problema della sicurezza per i baresi.
Nel secolo XIV si accentua il fenomeno di ruralizzazione della città.

TopIl ruolo dei monasteri fuori le mura di Bari: il legame con la campagna.
Nella prima metà del secolo XI, se si tiene conto della disposizione degli edifici religiosi e delle aree che risultano edificate all'interno delle mura, la città di Bari appare come un complesso rustico-urbano disposto ad arco attorno al porto, che costituisce il fulcro della vita cittadina ed il legame vitale con l'Oriente bizantino e con la capitale dell'Impero.
In un documento del 1057 è testimoniata una porta nova, a sud del pretorio, nell'area in cui la città si va ampliando, per l'accorrere dei molti che cercano rifugio spopolando le campagne circostanti.
La zona sud-est del promontorio non presenta nelle fonti segni di insediamento, se si eccettua il monastero di San Benedetto, ancora al di fuori delle mura ed in posizione isolata, che controlla però la via che partendo dal muro meridionale del pretorio punta verso la zona di Ceglie a sud e verso Brindisi a sud-est. Il monastero, con le sue proprietà agricole, svolge funzione di tramite tra il centro urbano e l'entroterra.
L'ordine monastico benedettino ha soprattutto una parte importante nella ripresa di Bari dopo il 1166. I monasteri di San Benedetto e della Trinità insieme alla basilica di San Nicola sono ormai punti di riferimento notevoli per la vita cittadina, e non solo di quella religiosa. A questo proposito, bisogna ricordare il monastero di Ognissanti, fondato nel 1080 circa, nella località di Cuti presso Valenzano dal prete barese Eustazio, che fu il suo primo abate e che nel 1105 era abate di San Nicola. Una serie di documenti, elencando le chiese di pertinenza del monastero, ci apre uno spiraglio sulla sua politica patrimoniale e su quella dei Benedettini in generale. Ci interessa in particolare il fatto che il monatero di Cuti viene considerato prope Barensem civitatem e in barensi suburbio. Su Bari, sui suoi abitanti e sulle sue comunità religiose gravita dunque un immediato entroterra agricolo del raggio di 10-15 chilometri, una distanza percorribile in 4-5 ore anche con le limitate possibilità di spostamento del tempo.
È questo semicerchio il terreno d'azione della politica d'espansione patrimoniale dei Benedettini baresi, che lo costellano di monasteri, chiese ed oratori e che traggono da esso i prodotti agricoli che vengono venduti in platea magna di San Nicola.

TopCase, orti, vigne, oliveti: il patrimonio della basilica di San Nicola.
Avvicinandosi alla metà del secolo XII si accresce sempre più il prestigio della basilica di San Nicola. Si moltiplicano le donazioni di terreni al santuario da parte dei privati, soprattutto di vigne e campi recintati fuori delle mura o nei paesi dell'entroterra. Si tratta di un fenomeno che testimonia dell'interesse di questa istituzione ecclesiastica alle proprietà terriere, che, anche se danno una rendita inferiore a quella degli immobili urbani, non sono come quelle soggette ad un rapido processo di degradazione e fatiscenza, e si prestano invece ad uno sfruttamento pressoché illimitato nel tempo.
Nel 1189 sei pellegrini tedeschi (il conte Bertoldo e suo figlio Enrico, con Ermanno, Elia, Payn, Antonio) stanno per salpare per la Terrasanta su una buttia sancti Nicolai barensis (la basilica possiede anche navi!). Acquistano prima da un artigiano barese una clausura con 44 alberi d'olivo situata lungo un'antica strada che porta da Bari a Modugno presso la chiesa di Santa Maria delle Grotte (fra Carbonara e Modugno) e ne fanno donazione a San Nicola. O quei peregrini teotonici pensano alla loro anima nell'imminenza di un viaggio rischioso ingraziandosi la benevolenza del venerato taumaturgo, o la donazione costituisce il pagamento del titolo di viaggio sulla nave nicolaiana.
In altri casi la basilica migliora le sue rendite attraverso scambi.
Nel 1187 un oliveto recintato di un tal Simone, situato nei pressi della chiesa di Sant'Eustrazio (costruita nel 1161 da un privato) vicino alla via publica e di fronte al frantoio di un omonimo Simone armatore, viene scambiato con un terreno di proprietà di San Nicola situato in località Balsignano ( a 10 chilometri a sud-ovest di Bari). Lo scambio avviene perché la terra nicolaiana è poco redditizia. L'oliveto che ha 35 alberi, confina ad oriente e ad occidente con altri oliveti di privati, e a settentrione con un oliveto appartenente all'arcivescovado di Bari. Queste indicazioni permettono di localizzare chiesa e oliveti sulla via da Bari a Bitonto.
In età sveva la basilica di San Nicola, malgrado il maggior favore accordato da Federico II all'arcivescovado, conserva tutto il suo prestigio religioso e gran parte della sua potenza economico-sociale.
In un atto «notorio» del 1223 molti cittadini baresi giurano sul Vangelo che la chiesa di San Nicola percepisce ab antiquo nella dogana della città il plateaticum o diritto di mercato sui seguenti beni: pane (solo se importato in Bari), vino (sia importato che esportato), miele, ricotta, formaggio (solo se di produzione recente), tessuti di lino (sia importati che esportati, escluso il lino proveniente dalla Siria o dall'Egitto), qualsiasi tipo di legname lavorato proveniente dalla Siria o dall'Egitto, vetro lavorato, vasi, otri, scodelle, anfore, fichi, aglio, cipolle, erbaggi, uova, pesce fresco o salato (se importato o esportato da non baresi), materassi e cuscini.
Sono evidentemente le merci trattate nella platea magna di San Nicola, e tali notevoli privilegi erano stati accumulati in epoca normanna.
Di altre proprietà, come case in città o terre fuori città, la basilica entra in possesso per acquisto diretto (investimento di rendite o prestiti) o, più spesso, per testamento.
In diverse occasioni, dal 1231 al 1236, il priore, il capitolo, o i singoli canonici di San Nicola chiedono denaro in prestito a mercanti e cambiavalute romani. Apparentemente la basilica si comporta come una grande impresa commerciale che ha bisogno di denaro liquido per finanziare le sue iniziative, ma che può contare su rendite annuali tali da permettere la restituzione di 375 e di 244 once d'oro (somme davvero ingenti) nel giro di un anno.
Se prende a prestito grosse somme, la basilica ne presta di modeste a piccoli proprietari che le utilizzano nelle coltivazioni di campi ed oliveti nel suburbio barese. Nel 1243 Aranea, figlia del giudice Andrea, e suo figlio Andrea (si dava talvolta al figlio il nome del nonno materno se questi era di condizione sociale più elevata di quella del nonno paterno) ottengono 3 once in prestito da San Nicola per coltivare un loro oliveto, e sino all'estinzione del debito pagheranno gli interessi sotto forma di una parte del raccolto. Un'altra forma di investimento adottata dalla basilica è quella di concedere in fitto per 29 anni a bassissimo canone un terreno edificabile in città, sul quale il fittuario può costruire un'abitazione che resterà alla scadenza proprietà di San Nicola.
Questo tipo di operazioni finanziarie e fondiarie non lascia sempre soddisfatti i contraenti, e si ha qualche caso di rescissione di contratto. Un certo Andrea, proprietario di oliveti e vigne presso la via pubblica che porta a Brindisi, nel 1245 restituisce al capitolo di San Nicola tutte le terre fuori città che gli sono state affidate perché le coltivi a frumento con la clausola di fornire alla basilica tre corbelli del raccolto ogni anno: Andrea dichiara di rimetterci e rinuncia alla concessione. Nel 1249 Andrea ha il possesso per 23 anni di alcune case di proprietà di San Nicola.
I sacerdoti della basilica sono anche piccoli coltivatori e mercanti, come prova il testamento del 1211 del prete Micelo, che insieme ad un protonotaio e con l'aiuto di due braccianti semiliberi coltiva terra, giardino e vigne, da cui ricava frumento, orzo e vino, conservato in botti di noce; possiede strumenti di lavoro ed un'asina; un porcellum (che tiene nella sua abitazione) deve alla sua morte essere macellato e diviso tra i poveri, mentre una certa quantità di frumento sarà distribuita ad artigiani come un maestro calzolaio, un confettiere, un oste e un sarto.
Sono evidenti gli articolati rapporti sociali ed economici che legano il clero nicolaiano all'ambiente cittadino.

TopDentro e fuori le mura: il problema della sicurezza per i baresi.
Nel periodo 1071 - 1130 (fondazione del regno normanno di Sicilia) molti proprietari terrieri dell'entroterra barese sono spinti a disfarsi dei beni rurali, anche a basso prezzo, e a trasferirsi in città, portando ad un progressivo aumento del valore dei terreni e dei beni urbani. Nasce e si sviluppa un ceto cittadino meno legato alla terra.
Negli anni successivi non mancano esempi di valorizzazione di terreni agricoli. Nel 1144, Melias, figlio di Stefano Sclavo (è divenuto cognome quella che in origine era l'indicazione di una indicazione di servitù), acquista numerose terre coltivate a vigneto, oliveto e ad alberi di vario genere, tutte fuori città e nei pressi di una chiesa dedicata a Sant'Agnese, ben attrezzate (palmento, pila, mangano, platea), pagandole 800 ducati come valore dei beni, più 32 ducati per i lavori di miglioria eseguiti su di esse.
Dentro e fuori le mura, è questo un periodo di relativo benessere per il ceto medio barese, che raccoglie i frutti del suo spirito di iniziativa e insieme del suo spirito di indipendenza, che ha prodotto vantaggi anche sul piano amministrativo e fiscale e su quello dei rapporti con il potere centrale normanno.
Ma, a partire dal 1156, Bari rimane in rovine e disabitata per un decennio, dopo che Guglielmo I, detto il Malo, ne ha abbattuto le mura e la ha rasa al suolo quasi completamente, non prima di aver ordinato ai suoi abitanti di abbandonarla, costringendoli a rifugiarsi nei paesi dell'entroterra, come Ceglie e Cellamare (Cella amoris). I baresi non dovettero per la maggior parte allontanarsi molto dalla città, se i documenti di quegli anni danno indicazioni di numerose proprietà agricole, in genere oliveti, in mano a baresi (specialmente a Ceglie e a Valenzano) o a chiese baresi, come San Pietro maggiore.
Dopo il 1166, Bari torna a ripopolarsi e, prima che il crollo della monarchia normanna e l'arrivo di Enrico VI di Svevia riaprano nella regione un periodo di turbamenti, i panorami urbano ed extraurbano appaiono poco differenziati: in città orti e giardini, tra i frutteti e le vigne del suburbio chiese ed ospizi. Le mura cittadine non sono più, nelle condizioni di stabilità politica e di sicurezza civile assicurate da Guglielmo II, strumento di difesa, ma sostegno fisico all'edificazione di nuove costruzioni e dato di riferimento topografico non delimitante nettamente i confini esterni del centro urbano, che va allargandosi al di là di esse dando vita a nuovi quartieri ed a nuove vie di accesso alla città e di comunicazione con l'entroterra.
Si forma una struttura economico-sociale in cui coesistono attività commerciali e fenomeni di ruralizzazione della città. L'immediato suburbio di Bari è coltivato soprattutto ad oliveto, seguito dal vigneto (che è un poco in regresso rispetto all'età normanna, a causa del maggior impegno finanziario che esso richiede), dal mandorleto e dall'orticoltura.

TopNel secolo XIV si accentua il fenomeno di ruralizzazione della città.
A causa di uno stato di guerra quasi ininterrotto fra Angioini e Aragonesi (le esigenze finanziarie di tale guerra pongono l'economia del regno sotto il controllo di banche settentrionali, mentre Fiorentini, Genovesi e Veneziani monopolizzano in Puglia il commercio del grano, dell'olio e della lana), nella prima metà del secolo XIV, a Bari e nel suo entroterra agricolo, la crescente insicurezza della vita nelle campagne determina tre fenomeni strettamente connessi: i cosiddetti «villaggi deserti»; un impoverimento delle colture con l'estendersi della pastorizia; e l'inurbamento. Ma ciò non porta ad un aumento della popolazione urbana per la generale decadenza demografica che si verifica nella regione.
La città estende la sua area urbana, ma appare meno densamente popolata per i vuoti nella trama edilizia, colmati da orti e giardini che cercano di riequilibrare in parte quelli abbandonati fuori delle mura. Si accentua cioè il fenomeno di ruralizzazione di cui si sono avuti segni sensibili in età normanna e sveva.
Le colture agricole in Terra di Bari sono in questo periodo, in ordine di importanza: oliveti, vigneti, cereali, orti-pomari-giardini, mandorleti ed altri terreni alberati.
La coltura dell'olivo appare quella dominante, ma con due aspetti interessanti: vendite di oliveti lontani dalla città a basso prezzo, ed aumento di valore degli oliveti nell'immediata periferia della città, come quelli in loco luciniano, appena fuori delle mura tra la porta vetus e la chiesa di Santa Lucia. La spiegazione del fenomeno è ovvia: la vicinanza alle mura significa maggior sicurezza, e la possibilità di trasportare rapidamente il raccolto o l'oleo musto nelle abitazioni urbane, che spesso hanno un cellario: il duomo ha anzi un laico come gubernator cellariorum. Molto frequenti nei documenti sono le indicazioni di grandi quantità d'olio e di vino conservate in casa, che sembra avere il deposito a piano terra, per facilitare il trasporto di contenitori e botti. I frantoi sono in genere indicati come annessi alle tenute agricole, ma esistono frantoi anche in città (come nel 1306 presso Santo Stefano de castello). La basilica di San Nicola sembra adotti un sistema di coltivazione o per mezzo di amministratori, o per mezzo di società con privati. Un analogo sistema di amministrazione per mezzo di società è adottato da privati per le proprietà più estese e più lontane da Bari, mentre si hanno diversi esempi di cittadini baresi che tendono a riunire, attraverso vendite e acquisti, in una sola località le loro proprietà agricole.
La seconda coltura in ordine di importanza, testimoniata dai documenti privati, è la vigna. Un fenomeno significativo è costituito dai diversi esempi di vigne abbandonate ed improduttive; frequenti i casi di coltura mista, cioè di vigne alberate (in genere fichi, che richiedono scarsa assiduità). La spremitura dell'uva viene generalmente effettuata sul luogo di produzione, ma il mosto viene conservato e fatto fermentare in città. Qualche vigna è nelle immediate vicinanze della città: nel 1347 ne è testimoniata una presso il monastero di San Benedetto.
A Bari c'è, fin dal periodo svevo, un mercato del grano, tra la cattedrale e il castello. Gli orti sono in genere a poca distanza dalle mura (in loco fossati), ma ce ne sono diversi anche in città, presso la dogana e Santa Barbara, presso Sant'Andrea, San Marco, San Nicola, il duomo e San Leone della Giudecca.
Una coltura secondaria appare quella del mandorlo, con scarsissime indicazioni.
Il suburbio barese sembra essersi ristretto a località non molto lontane dalla città; gli scambi sono limitati alle necessità di sopravvivenza; l'area urbana è sostanzialmente immutata rispetto al periodo angioino: alla metà del secolo XIV si è fermata la spinta espansiva iniziata dalla costruzione della basilica di San Nicola.
Il centro urbano ed il porto maggiori della regione vedono tramontare e spegnersi i fruttuosi ed organici rapporti che li hanno legati all'entroterra agricolo ed ai paesi al di là del mare.


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18 Luglio 2001