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VITA E FOLKLORE

Ed ora un rapido sguardo alla vita ed al folclore per fermare nel ricordo del passato gli aspetti caratteristici della nostra terra millenaria, aspetti che purtroppo tendono a scomparire di giorno in giorno.

Come non ricordare i bambini scalzi agli angoli delle strade, intenti ai loro giochi fatti di piccole cose, per lo più create dal nulla: girandole (vintarole) di carta colorata ed attorcigliata, che orientate verso il vento, ruotavano vorticosamente; pupazzi di creta con il fischietto in fondo; aquiloni, costruiti con filo, canna ed un po’ di carta, al quale si ricorreva sovente per una sana corsa all’aria aperta.

A primavera era di turno il cerchio di ferro (la rozzola) che si faceva girare spingendo con un altro ferro arcuato a staffa di cavallo.

In estate la trottola (u curro), una sfera schiacciata di legno attraversata da un lungo chiodo all’estremità del quale e nella parte inferiore si attorcigliava la corda che tirata con un vigoroso strappo del braccio, le imprimeva un veloce movimento rotatorio.

In autunno u dingt o mazza iuno, consistente nel far saltare un corto pezzo di legno affusolato, battendo su un’estremità con uno più lungo, per poi riprenderlo al volo e gettarlo il più lontano possibile.

In inverno l’assordante stridere delle raganelle (a trenela), formate da una ruota montata su di un perno, attorno alla quale era fissato un telaio con una lamina che strisciando contro i denti della ruota, produceva un suono acuto e stridente.

Quando proprio non ci fosse altro si improvvisava u tocca–tocca. Il gioco consisteva nel toccare e non farsi toccare in una corsa sfrenata che avveniva per lo più intorno alla casupola, fino a quando uno non raggiungeva l’angolo della salvezza, dal quale poi riprendeva la corsa inseguito sempre dal competitore.

Insomma una felicità fatta di niente, ma sana, allegra, spensierata, gioiosa.
I bambini poi, e per lo più fino ad otto anni, vestivano in modo un po’ strano: una camiciola di tela fatta in casa (al telaio), larga e senza colletto, tutta arricciata e ficcata in pantaloni attillati fino al ginocchio, che tenuti da bretelle di stoffa, avevano un lungo spacco sotto al cavallo, da cui usciva la cosiddetta pettola, un lembo cioè della camicia bianca, ma qualche volta maculata e imbrattata; il tutto perché il bambino potesse facilmente (e liberamente) evacuare.

Verso il tramonto, quando ancora non c’era la luce elettrica, girava per il paese un venditore ambulante, il quale si fermava agli angoli delle strade, e con voce profonda gridava “petrolio … petrolio …”. Aveva con sé una latta piena di questo combustibile. In giro si vedeva anche il conza–lampiere con una scala lunga, sulla quale si arrampicava per accendere i lumi dei lampioni.

Alla sera dopo il tipico piatto di fave e verdure (fave e foggne), o di legumi spesso accompagnato da una buona focaccia di pasta azzima (piddica), o dopo il rituale piatto di strascinati (pasta nera di grossetto fatta in casa), tutti in famiglia, grandi e piccoli, si buttavano, stremati e stanchi, su sacconi colorati a strisce, pieni di paglia di orzo, per ridestarsi all’alba.

Vi era anche chi iniziava la propria attività nel cuore della notte, verso le due, per cui a quell’ora, cupo e pauroso, come un lamento di un dannato, echeggiava per le vie deserte del paese, il grido di Marianna mitti l’acqua. Erano i fornai che girando di casa in casa, avvertivano le massaie che la legna del forno era già accesa e che era giunta l’ora di panificare. E mentre i caffè aprivano le loro porte, in piazza si formavano i primi gruppi di braccianti, pronti a raggiungere le campagne dove svolgere il proprio lavoro.

Le donne non addette ai campi, restavano in paese dedicandosi alle faccende domestiche. All’imbrunire si riunivano per recitare il Santo Rosario e dagli usci lasciati socchiusi si propagava di casa in casa, un ondeggiamento fievole di malinconia.

E’ come se il tempo si fosse fermato, eppure sono passati secoli e secoli di storia.