Allo stesso periodo (1150-1168) risale un altro documento, il
Quaternus magnae expeditionis, nel quale era registrato l’auxilium che i
proprietari terrieri e i detentori di beni feudali erano obbligati a fornire per sostenere la
magna expeditio normanna contro le truppe bizantine, tedesche e pontificie alleate.
Nel Quaternus il Ducatus Apuliae compare suddiviso in comestabulìe, rette da
comestabuli ai quali erano delegati i poteri militari e di organizzazione della magna
expeditio. La prima delle comestabulìe elencate, retta da Frangalius de Bitricto,
comprendeva grosso modo la Terra di Bari e ne faceva parte anche il feudo di Bitritto, di cui
era feudatario in capite (cioè aveva ricevuto tale beneficio direttamente dal
sovrano) un certo Francarius, probabilmente il comestabulo stesso, o suo figlio.
Questi provvide ad adeguare il castello alla sua nuova importanza militare e amministrativa,
disponendo alcuni lavori di ampliamento e fortificazione, dei quali non restano testimonianze
scritte, ma si rilevano dall’analisi delle discontinuità presenti tra le strutture a
piano terra e primo piano e tra queste ultime e le torri.
Detti lavori di ampliamento consistettero sostanzialmente nella sopraelevazione dei corpi bassi
tra le torri, che vennero riquadrate nelle facciate perdendo così l’imponenza originaria,
e nella costruzione di un avancorpo addossato alla facciata interna nord.
Gli accessi al casale rimasero probabilmente gli stessi e l’organizzazione
funzionale prevedeva al piano terra i locali di servizio e al primo piano quelli residenziali.
Quello che potrebbe essere chiamato il PALAZZO DEL COMESTABULO
e il casale ad esso adiacente assunsero così un assetto militare e amministrativo
completo ed efficiente, e difatti Frangale, figlio dell’ormai morto Frangalius, lo definì
un "castrum" in un documento legale del 1209, nel quale riconoscendo che esso
apparteneva antiquitus alla Chiesa di Bari, lo restituì alla Mensa Arcivescovile.
In seguito tuttavia, del castrum Bitricti e del casale quod dicitur Cassanum
divennero proprietari Guglielmo Chinardo e sua moglie Mabilia, che avevano ricevuto dagli Svevi
la loro autorità e i loro privilegi.
Così nel 1266 Giovanni VI, arcivescovo di Bari, si appellò al re Carlo I per
ottenerne la restituzione, che potè avvenire tuttavia solo per limina portarum,
cioè solo simbolicamente sulla soglia delle porte, in quanto i Bitrittesi rifiutarono di
prestare giuramento all’arcivescovo di Bari e, nonostante le ingiunzioni del giudice, le porte
rimasero serrate, né si scorgeva nessun ingresso praticabile nella cinta muraria.
Solo l’anno successivo, quando la legittimità delle pretese di Giovanni VI fu stabilita
mediante un processo dal vescovo di Albano (incaricato di compiere le inchieste per la
restituzione dei beni delle Chiese del Regno di Sicilia) i Bitrittesi capitolarono.
L’arcivescovo di Bari potè entrare nel Castrum, prenderne possesso e presenziare al
giuramento di fedeltà da parte degli abitanti, il cui elenco è giunto fino a noi:
esso consta di una novantina di nomi, dai quali possiamo desumere uno spaccato della
società bitrittese della fine del XIII secolo.
Quest'ultima appare costituita per la maggiorparte da contadini, da un buon numero di
magistri (i titolari delle botteghe artigiane), e da una piccola cerchia che
rappresentava la parte eminente di detta società: un notaio, due giudici, un abate e
pochi altri.
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