PITTAGIO S. PAOLO
Il Pittagio S. Paolo si definisce come residenza degli ordini produttivi
e più umili della città, data la larga presenza di semplici domus, apothecae
e cellaria, orti e giardini. Il Pittagio accoglieva la colonia ebraica,
la "Iudecca" o "Iudayca" dei documenti. Questa comunità era organizzata
con proprio luogo di culto e religiosa. Ulteriori testimonianze sulla
Colonia ebraica sono fornite da un atto riguardante l'inventario dei
beni immobili dell'ospedale di S. Caterina in Galatina e la descrizione
del feudo delle Cenate, in cui si fa menzione di un Acheiron de la Phisica,
"Ebreo di Nardo'", proprietario di terreni confinanti con il casale
di Agnano, dove viene redatto il medesimo documento il 20 luglio 1443.
Gli eredi di Giosuè de Manella erano anch'essi proprietari di una Masseria
(de Pastrinealo) rientrante nel feudo delle Cenate e decimale dell'Ospedale
di S. Caterina in Galatina. Un Angelo "iudeus" (non meglio indicato)
risulta proprietario di terreni nel feudo di Pompiliano, secondo l'inventano
dei beni immobili del Monastero di S.Chiara del 1427. Il ricorso del
1465 fatto dal vescovo de Pennis contro il demanio regio per il recupero
della giurisdizione sulla colonia ebraica suffraga l'ipotesi di una
consistente comunità. Sembrerebbe che il numero delle famiglie presenti
nel Pittagio S. Paolo ascendesse, nel 1469, a cinquanta. Se si deve
dar credito al Tafuri gli ebrei sarebbero stati cacciati dalla città
nel 1492. Prima della fine del secolo, sembra che gli ebrei neritini,
aggiunge Benigno Perrone, abbiano "subito anche la confisca dei beni"
come si desume "da un transunto di diploma di Consalvo di Cordova del
dicembre del 1501".L'esodo della colonia isralitica avrà posto un problema
di riutilizzazione delle aree occupate. E' verisimile supporre sia avvenuta
in Nardo' trasformazione analoga a quella operata in Lecce a danno della
sinagoga convertita in tempio cristiano. Infatti, secondo la cronaca
di Bonaventura Quarta Da Lama, il luogo su cui fu edificato il Convento
dei Minori Riformati sarebbe stato ricavato dall'abbattimento di abitazioni
ebraiche. La fine del secolo XV, comunque, avrà costituito un momento
di profonda trasformazione del quartiere. Nel secolo XV all'interno
del ghetto sporgevano, secondo gli elementi forniti dalla documentazione
d'archivio, otto domus dalle varie tipologie (domus coperta, domus discoperta
et curti sive ortale domus cum arco in medio et puteo, semplici domus),
e ricadenti tutte "iuxta moenza", "prope portam". Da notare che all'interno
della giudecca la Visita Pastorale di mons. de Pennis censisce una chiesa
intitolata a S. Barbara . Nella più vasta area del quartiere si riscontrano
nove domus; una domus palaciata (quest'ultima si trova essere di proprietà
di Margherita Pecoraro come risulta da un atto di vendita della stessa
a favore del fratello Pietro del 4 agosto 1477), due chiese (S. Pantaleo
e S. Paolo) e un orto. Il pittagio si articolava in tre vicinia: Giudecca,
S. Pantaleo e S. Barbara. E' presente in questo periodo il fenomeno
che vede l'ente ecclesiastico proprietario di immobili proprio nel ghetto.
La situazione acquisterà proporzioni più ampie con il secolo XVI. Se
è verisimile che gli ebrei siano usciti da Nardo' ai primissimi del
1500, il persistere di riferimenti ad una giudecca nei documenti dovrebbe
riflettere soltanto il sopravvivere di una toponomastica. Di ben altre
proporzioni è la fisionomia che si può ricostruire di questo quartiere
nel il secolo XVI. A ciò contribuisce senza alcun dubbio l'energico
movimento di ripresa e di nuovo slancio economico registratosi in tutta
Europa, e di cui si e' fatto già più volte cenno, ma anche, e soprattutto,
una maggiore ricchezza e completezza della documentazione. Il Pittagio
si articola in sei vicinia anzicche' in tre come per il periodo precedente,
vale a dire: vicinio S. Maria Captive, vicinio S. Leonardo, vicinio
della giudecca, vicinio S. Lucia, vicinio S. Antonio di Padova, e "Vicinium
Portae eiusdem Sancti Pauli". Ad eccezione del vicinio della giudecca,
che, come si vede, persiste sino alla fine del sec. XVI (una delle fonti
utilizzate è la visita del Bovio), la denominazione degli altri vicinia
e' completamente cambiata. Non è da escludere che nuovi vicinii si siano
venuti ad aggiungere ai preesistenti. Si può avanzare l'ipotesi, perciò,
che, sia nell'un caso, che nell'altro, la documentazione sia parziale,
nel senso che essa fornisce le indicazioni che di volta in volta risultavano
necessarie alla materia intrinseca del documento, alla completezza descrittiva
dello stesso, in quanto atto pubblico. L'aspetto di quartiere più popolare,
per vocazione sede elettiva delle fasce sociali dedite ai traffici e
al commercio, rimane immutato anche per tutto il 1500, nonostante, come
sembra, la scomparsa della comunità ebraica. Le fonti informano, dunque,
della presenza, nella giudecca, di un'apotheca di proprietà di Polidoro
Camisa, di un'altra apotheca cum orticello di proprietà di Vincenzo
una chiesa intitolata a S. Maria de Arcudi da cui una delle due era
proprietario un Paduano de Priano. Vi era ancora una cantina appartenente
a Geronimo de Pennis. Il dato che qui emerge, e di un certo interesse,
al di là dell'insufficienza della materia per una più dettagliata ricostruzione
dell'urbanistica e della composizione sociale del Pittagio medesimo,
e' costituito dalla presenza di proprietà ecclesiastica all'interno
della stessa giudecca. L'inventano dei beni immobili del Monastero delle
Clarisse riporta (dicembre 1427) fra i beni della comunità una "domum...
copertam cum alia discoperta et curti sive Qrtale uno, iuxta menia civitatis
Neritoni" ubicata proprio all'interno della "iudayéa" ; un Chai "saccerdotus
iudeus" "tenet ad loerium", vale a dire in fitto, "domum unam:cum arcu
in medio et puteo", ubicata sempre nella giudecca ("item in predicta
iudayca"). Nel secolo successivo, vale a dire nel 1500, sembrerebbe
di assistere ad un allargarsi del fenomeno. Di tutte le apothecae menzionate
e' detto essere costruite su suolo di proprietà della Chiesa. La cacciata
della colonia israelitica ha conseguentemente comportato un allargarsi
della proprietà ecclesiastica, con le prevedibili demolizioni e riutilizzo
delle aree, a definitiva riconsacrazione di questa parte della città?
Si tratta, ovviamente, solo di un'ipotesi, che potrebbe non essere del
tutto inverisimile. Si tenga presente che il Vescovado era proprietario
di alcune case "denominate de lo Tino"; un abate Bartolomeo de Epifanis
era proprietario di un'altra casa;la Chiesa era proprietaria, ancora,
di altre case. Come si può notare, nella documentazione del sec. XVI
compare il termine casa che diventa alternativo a quello di domus. Per
il Pittagio S. Paolo si è informati (complessivamente per i sec. XV
e XVI) della presenza di una cinquantina di abitazioni civili di cui
una "domus palaziata cum intercolumnio". Gli Atti del Magister Nundinarum
(sec. XVI) riportano alcuni nomi di proprietari, come un Emilio Nociglia,
un Francesco Zuccaro, una Laura Manieri, un Prospero Bizzarro, un Emilio
Muci, un Demetrio Zuccaro, un Domenico Rizzelli, ed una Fiorita della
Coralla, Galeno Manieri, ecc. Da notare che in questo quartiere non
compare neppure un hospicium. Le uniche tipologie di un certo rilievo
sono costituite dalla già menzionata domus palaziata cum intercolumnio,
che gli Atti della Visita Pastorale di mons. Gabriele Setario riportano
come bene legato all'altare di S. Martino della Chiesa Cattedrale. Nel
1543 questa domus viene venduta per ventiquattro ducati "cum augmento
XV" ad un certo Donato Cortese. L'altro edificio di una certa dignità
sarà stata la domus terranea semipalaciata di Laura Manieri. Per esaurire
il quadro complessivo di questo quartiere v'è da aggiungere che nella
giudecca vi era, ancora, una stalla di proprietà di Martino di Pantaleo
, un "loco uno aperto" di proprietà dell'arcidiacono Giosue' di S. Basilio
di Nardò, nonchè una "platea demaniale". Il Pittagio S. Paolo era infine
servito da dieci chiese; S. Zaccaria, S. Margherita, S. Nicolicchio,
S. Leonardo, S. Cristoforo, S. Angelo, S. Giovanni Battista, la Cappella
dell'Annunziata, S. Biagio e S. Paolo. Come si vede non si fa menzione
della chiesa di S. Barbara che la documentazione del sec. XV abbiamo
visto riportare nel cuore della giudecca. Se il tessuto socio-urbano
del quartiere e' quello che emerge dalla documentazione dei sec. XV
e XVI, di estremo interesse risulterebbe il riscontro di una eventuale
continuità con il periodo precedente e con quello successivo. Il saccheggio
subito nel 1225 da Nardo' da parte delle truppe dei comuni di Brindisi,
Lecce, Otranto, Oria e Gallipoli costituisce ulteriore testimonianza
di un ruolo che la città sembra sempre avere svolto. Il tessuto del
Pittagio che nel suo spessore e con le sue numerose apothecae cellaria,
cantine, magazena, con la residenza della colonia ebraica, sembra presentare
una sua omogeneità mercantile e commerciale, risponde perfettamente
all'immagine che di questo centro salentino offre il manoscritto greco
del 1255. Si può, quindi, accettare l'affermazione, per Nardò, di centro
di approvviggionamento di tutte le città (salentine ovviamente) e dei
comuni rurali . Dallo stesso documento è possibile sapere che Nardò
era centro di produzione di libri, di grano, di vino, di carne, di pesce
di frutta e ortaggi e di tutti gli altri generi necessari . Non coglie
di sorpresa, quindi, che oggetti in rame, ottone e bronzo, tessuti in
zendalo tramato in oro, in seta, in lino facciano parte del comune corredo
delle case nobili. Se il testamento di Filippo Sambiasi nei primissimi
anni del sec. XV (an. 14.28) offre conferma di un certo tipo di mercato
e di artigianato ,le presenze registrate in occasione, della fiera dell'Incoronata
dell'agosto del 1606 negli Atti del Maestro del Mercato consentono di
verificare la continuità di un ruolo rimasto pressochè inalterato sino
ai primi secoli dell'età modera. Se le apothecae, i cellaria, i magazena
dislocati nel Pittagio Sancti Pauli e nella adiacente platea puplica
qualificano Nardo' come centro manufatturiero e attivo centro agricolo
e di approvviggionamento, la ricorrenza di fiere (= nundinae) come quella
dell'Incoronata vivacemente frequentate da "cavallari", comè un Franciscagno
di Cascia, e, Francesco Antonio Nanisella; da "bracciolari", come un
tal Marcello Filippo; da "venditori di lino", come un certo Antonio
Marino, Camillo Fedele, o di "bambace", come un Giovanni Antonio Amico
da Galatone; da "argentieri", come un Donato Antonio e un Antonio Picca;
da "venditori di caldare", come Mastro Giovanni Statila di Gallipoli;
da "venditori di mesure d'oglio", come un Antonio Ballino, costituisce
il nesso fra la produzione locale e il più vasto ambito del mercato
salentino, il momento di più vitale, integrazione economica di questa
città con il suo territorio nell'area subregionale salentina. Negli
Atti del Magister Nundinarum riguardanti questa fiera del 1606, oltre
ai su menzionati artigiani e "venditori", ritornano anche i così detti
"copetari", ed infine i "poteghari". Nonostante, quindi, questo quartiere
presenti un'aspetto più dimesso, per lo meno dal punto di vista architettonico,
rispetto agli altri tre dove gli hospicia delle. famiglie nobili, nonchè
l'edilizia adibita ai pubblici servizi, contribuivano a conferire quella
dignità è forza che derivava dall'interesse pubblico delle stesse, la
sua funzione risulta, al contrario, vitale ed esclusiva all'economia
dell'intera città, data l'intensa attività produttiva del territorio,
della privilegiata posizione di uno sbocco sul mare Jonio con due porticcioli,
quello cioè dell'attuale S. Maria al Bagno e Porto Cesareo.