MUSEO DI TARANTO
Sbarcarono su queste
coste, sentirono profumo di rosmarino e non se ne andarono più. L'VIII
secolo prima di Cristo era agli sgoccioli quando quegli uomini forti
arrivarono dalla "tremenda" Sparta. Si chiamavano Parteni, illegittimi
nati dalle vergini e dai guerrieri rimandati in patria durante la guerra
di Messene per darle nuovi figli. Ma quando le armi tacquero, gli Spartani
non furono leali con loro. Non vollero considerarli cittadini come gli
altri e, dopo una fallita congiura, ai Parteni non restò che andarsene.
Fu l'oracolo di Delfi ad indirizzarli: "Popolate la grassa terra degli
Iapigi e siate la loro rovina". Lo furono. Favorita dalla posizione
geografica, Taranto divenne un simbolo della splendida era della Magna
Grecia sulle coste lambite dallo Ionio. Mentre altrove, nell'Italia
non ellenizzata, dominavano le tribù e si viveva in villaggi, in Puglia
fiorivano le progredite e democratiche Città-Stato, le pòleis: "Percorse
dalla filosofia, dalla matematica, dalla geometria, dall'astronomia,
dalla logica, dalla fisica, dalla retorica, dalla medicina, avrebbero
illuminato il mondo". Finché arrivò la potenza di Roma, cui Taranto
si consegnò per evitare l'urto delle legioni. Per uno dei fari dell'antichità,
era l'inizio della fine. Dal 272 avanti Cristo Taranto dineta "socia"
dei Romani, cui paga un tributo di guerra e fornisce navi per la flotta.
Esclusa dalle grandi vie di comunicazione, specie dopo la fondazione
della colonia latina di Brindisi, perde la floridezza economica. Quando
Roma la strappa dalle mani di Annibale, cui per dispetto si era consegnata,
Taranto è saccheggiata e semidistrutta. Si conclude un'epoca. Diceva
un vecchio saggio che per conoscere un popolo bisogna conoscere i suoi
cimiteri. Attorno a Taranto una vasta necropoli ha restituito i resti
della grandezza che fu. E il Museo Nazionale cittadino deve in gran
parte a quelle 2500 tombe la sua ricchezza. A cominciare dalla prima
meraviglia: gli ori. Collane, orecchini, anelli, diademi, monili rivelano
tecniche di lavorazione che già 2300 anni fa avevano poco da invidiare
a quelle odierne. Non tutti sono stati rinvenuti a Taranto, anzi alcuni
tra i più ricchi provengono dalla tomba della fanciulla di Canosa. Il
nobile metallo non era molto diffuso nel mondo greco e magno-greco,
a differenza del mondo orientale o di quello etrusco.
Finchè le conquiste
dello stupefatto Alessandro Magno misero a disposizione le immense ricchezze
dei re persiani, e i Macedoni cominciarono a sfruttare le miniere della
Tracia. I gioielli erano privilegio delle più fortunate donne del tempo,
oppure venivano offerti agli dei, o infine deposti nelle tombe insieme
alle spoglie dei proprietari. Ma la sala degli ori mostra anche il pezzo
più pregiato fra le statue: il cosiddetto Zeus di Ugento, un bronzo trovato
appunto nella vicina Ugento. Si ritiene opera di un artista tarantino
di quella scuola magno-greca visitata da maestri provenienti dalla terra-madre.
Venne anche il più noto di tutti, il famoso Lisippo, ad abbellire una
città tanto ricca di statue, tanto maestosa e regale da fare la meraviglia
dei conquistatori romani. L'altro pezzo forte della sezione statuaria
è la Testa di Afrodite (325 a. C.), altera ed elegante. E poi il delicatissimo
e morbido Corpo di Ninfa, il manto leggero che cade sui fianchi. E il
giovane Dioniso, dalla linea ondulata del corpo, come voleva la sciola
di Prassitele. Non c'era marmo sul posto e allora lo facevano arrivare
dalla Grecia. Forse le piccole terrecotte figurate, esposte a centinaia,
non reggono al confronto di tanta monumentalità. Ma trasmettono un senso
di familiarità, e soprattutto colpisce la loro grazia. Sono opera degli
artigiani della plebe e costituiscono il documento più immediato sulla
vita di ogni giorno. Venivano depositate nelle fosse votive in onore della
divinità; o anche nelle tombe, e la maggior parte raffiguravano il defunto
in un banchetto con gli dei, perché così si credeva si svolgesse la vita
ultraterrena. Nelle vetrine sembra rivivere "la folla chiassosa e sciamante
di Taranto magno-greca: giovani e vecchi, bambini e giocattoli, dei ed
eroi, schiavi ed operai, danzatori e buffoni, saltimbanchi ed acrobati".
La famosa dolce vita ce la raccontano le danzatrici: una di queste balla
il "baukismos", quasi un tango. E una menade s'abbandona sfinita dopo
il delirio orgiastico dionisiaco. E gli attori della farsa fliacica prendono
in giro il mondo con maschere grottesche ed enormi falli. Ancora le tombe
ci hanno restituito quello che resta della splendida ceramica del tempo.
I vasi venivano dalla Grecia e sul fondo del mare chissà quante altre
navi giacciono con preziosi carichi. Qui dalle sale occhieggiano le coppe
laconiche, dall'orlo sottilissimo con le figure nere sul fondo rosso d'argilla
(la Laconia era la regione di Sparta). Le più belle sono la Coppa con
i pesci e la Coppa con tonni e delfini, due capolavori. Quindi la serie
delle anfore. E l'hydria, i crateri, la kylix, la pisside. Infine una
delle più ricche collezioni di ceramiche protocorinzie e corinzie: su
tutte la celeberrima lékitos con la scena mitologica di Teseo e Arianna,
opera del cosiddetto "pittore di Pan". Si chiude l'epoca classica. Non
meraviglia che una potenza come Taranto partorisse atleti entrati nel
mito. Questo, di cui si conserva qui la tomba, era robusto, alto circa
un metro e settanta (una statura eccezionale allora), stroncato intorno
ai trentacinque anni delle fatiche delle sue imprese. Tra il 500 e il
460 a. C. vinse tre volte il pentathlon (salto in lungo, disco, giavellotto,
corsa, lotta), ebbe pochi rivali nella corsa delle quadrighe affrontò
quel crudele pugilato che si protraeva fino allo stremo delle forze. Quando
la sua bell'anima salì all'Olimpo, lo adagiarono per il meritato riposo
in un sarcofago monumentale e dipinto. Ritrovato nel 1959 durante lavori
di scavo in via Genova a Taranto, ora troneggia al centro di una sala
pervasa da brivido della gloria. Agli angoli, tre anfore panatenaiche
(dal nome dei giochi sportivi di Atene) illuminano la scena di sublime
bellezza: erano quattro, ma una andò perduta.
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