Il rilievo a vista, mediante l'impiego dell'immagine fotografica, è
possibile solo a patto che la stessa sia osservata con un solo occhio, posto
nel punto corrispondente al centro di proiezione: solo in queste condizioni,
nell'osservare la fotografia, l'asse visuale del nostro occhio ricostruisce
il fascio di raggi che l'ha proiettata.
Il mancato rispetto di questa condizione
è alla base della fama di "grande bugiarda"
di cui è
vittima la macchina fotografica. Osservando la foto riportata qui, a sinistra, riusciamo a dare
delle dimensioni ai gradini, alla porta, ai conci murari ecc., sulla base del nostro
bagalio culturale, ma resteremo certo meravigliati quando, osservando l'immagine della
stessa porta, riportata a destra, scopriremo di esserci sbagliati, vedendo in basso a destra
un elemento di sicuro riferimento metrico, qual'è l'immagine di un uomo.
Quando parliamo di fotografia tridimensionale o stereo, ci riferiamo
sempre ad una coppia di fotogrammi (scattati da due punti distinti), la
cui simultanea osservazione consente la percezione dell'immagine tridimensionale
dell'oggetto fotografato. I metodi cui l'uomo fa ricorso per l'osservazione
dell'immagine fotografica tridimensionale sono molti: alcuni richiedono
strumenti più o meno sofisticati, altri un semplice allenamento.
In questa sede, però, ci interessa innanzitutto comprendere il meccanismo
cui il nostro cervello fa ricorso quando effettua l'analisi dimensionale.
Cominciamo con l'esaminare l'apparato ottico, cioè l'occhio, il cui
funzionamento viene spesso assimilato a quello di una macchina fotografica:
esso, infatti, è una particolare camera oscura dotata di obiettivo
(cristallino), di un diaframma (iride) e di una superficie sensibile (retina);
mancano, però, l'otturatore e la possibilità di fissare l'immagine,
quindi a pensarci bene potremmo paragonare l'occhio ad una telecamera, ma
c'è ancora un'altra caratteristica che non possiamo assolutamente
trascurare ed è la continua mobilità dello stesso. In realtà
la sensibilità della retina non è uniforme ed è massima
in un particolare punto (fovea), il quale, proprio grazie alla possibilità
di rotazione del bulbo oculare, viene continuamente spostato nelle zone
più interessanti dell'immagine proiettata. Il raggio proiettante,
passante per esso, prende il nome di asse visuale. Nel fare l'analisi dimensionale
di un qualsiasi oggetto, il cervello fa ricorso a diversi metodi di rilievo:
prospettiva, confronto delle due immagini proiettate sulla retina ed triangolazione.
Dei tre, i primi due servono essenzialmente per individuare gli elementi
da analizzare, mentre il terzo rileva la posizione dei punti osservati mediante
un'autentica triangolazione avente per base la distanza tra i centri di
rotazione dei bulbi oculari e per vertice l'intersezione degli assi visuali.
Per la verità non è che il cervello misuri, per ogni punto,
gli angoli formati dagli assi visuali con la base ed effettui i relativi
calcoli per ricavare le tre coordinate in un sistema di riferimento cartesiano
ortogonale, ma memorizza continuamente i dati dopo averli sottoposti a verifica.
Per esempio il bambino, nei primi mesi di vita, prima di riuscire a prendere
un oggetto, deve elaborare un proprio programma di rilievo. Ammesso che
entrambi gli occhi siano funzionanti, prima di avviare le operazioni di
presa, egli deve individuare la posizione dell'oggetto che lo interessa
e per far ciò può:
- far ricorso alla prospettiva; ma deve aver già memorizzato le
dimensioni dell'oggetto osservato, altrimenti crederà di aver a portata
di mano un aeroplano, che appare piccolo solo perché è molto
lontano;
- utilizzare la stereoscopia; ma deve aver acquisito tanta esperienza
da essere in grado di stabilire la distanza di un oggetto sulla base della
differente larghezza delle due immagini proiettate sulla retina dei propri
occhi;
- effettuare la triangolazione; ma deve aver già memorizzato la
legge di variazione dell'angolo formato dagli assi visuali in funzione della
distanza del punto osservato.
Evidentemente il programma di rilievo non viene elaborato dal cervello
sulla base di calcoli matematici o di rappresentazioni grafiche, ma piuttosto
con una serie di tentativi i cui risultati costituiscono la banca-dati indispensabile
per qualsiasi nuova esperienza. Quando si presentano nuove situazioni, il
nostro cervello torna a comportarsi come quello del bambino; per convincercene
cimentiamoci in un semplice esperimento, chiedendo ad un nostro interlocutore
di poggiare la punta di una matita su quella di una simile, che noi teniamo
in mano all'altezza dei suoi occhi. Se la persona da noi sottoposta all'esperimento
tiene entrambi gli occhi aperti, non avrà alcuna difficoltà
a toccare la punta con la propria matita, ma se gli chiediamo di tenere
un occhio chiuso, dovrà fare più tentativi per compiere l'operazione.
Dopo i primi fallimenti tenterà di osservare la matita (e quindi
di rilevarne la posizione) con entrambi gli occhi prima di chiuderne uno
per ripetere il tentativo, oppure sposterà la matita lungo il proprio
asse visuale fino ad incontrare l'altra: insomma il suo comportamento non
sarà molto diverso da quello del bambino. Se vogliamo mettere ancora
in crisi il sistema di rilevamento del nostro interlocutore, possiamo chiedergli
di poggiare la punta della matita su di un filo che avremo cura di tendere
all'altezza dei suoi occhi nel piano degli assi visuali. Anche in questo
caso, nonostante il ricorso alla visione binoculare, il suo cervello non
riesce ad effettuare la triangolazione: infatti la superficie uniforme del
filo non gli consente di individuare un particolare punto su cui far convergere
gli assi visuali, il cui angolo è indispensabile per determinare
la distanza. Se invece disponiamo il filo verticalmente, il nostro interlocutore
non avrà alcuna difficoltà: infatti, abituato com'è
a conservare la complanarità degli assi visuali, li farà convergere
facilmente sul punto intersezione del filo con il piano da essi determinato.
1. La visione stereo artificiale.
Se nell'analisi di un qualsiasi oggetto poniamo davanti agli occhi, alla
minima distanza di osservazione, una lastra di vetro trasparente, i raggi
visuali descriveranno su di essa due immagini prospettiche identiche a quelle
ottenibili con una macchina fotografica, dotata di due obiettivi, distanti
reciprocamente quanto la nostra distanza interpupillare, aventi una distanza
focale uguale alla distanza della lastra dai nostri occhi o, con più
precisione, una distanza principale uguale rispettivamente alla distanza
dei centri di rotazione dei due bulbi oculari dalla lastra stessa. Sostituendo
l'immagine diretta dell'oggetto con le due diapositive ottenute, sistemate
opportunamente sulla nostra lastra di vetro e osservate separatamente ma
contemporaneamente, il nostro cervello percepirà un'immagine tridimensionale.
Esso sarà tanto più fedele all'originale quanto più
fedele sarà la ricostruzione, in fase di osservazione, dei due fasci
di rette costituiti da tutte le posizioni assunte dagli assi visuali nell'analisi
dell'oggetto.
2. Il modello ottico tridimensionale.
Se i due fasci di rette, determinati dagli assi visuali in fase di ripresa,
non coincidono con quelli individuati nell'osservazione della coppia stereo
di fotogrammi, l'immagine percepita dal cervello differirà dall'originale.
Spesso, però, si fa ricorso ad una opportuna variazione delle condizioni
di osservazione rispetto a quelle di ripresa. La ricostruzione dell'immagine,
comunemente chiamata modello ottico tridimensionale, viene deformata o semplicemente
ridotta per rendere più agevole l'analisi dimensionale. Per analizzare,
per esempio, le deformazioni di una superficie piana possiamo semplicemente
aumentare, in fase di osservazione, la distanza principale esasperando eventuali
convessità o concavità presenti. Aumentando, invece, la base
di ripresa rispetto a quella di osservazione potremo ridurre in scala il
modello ottico o, viceversa, ingrandirlo a piacere: un'applicazione di questo
principio si ha in stereofotogrammetria, dove il rapporto base/distanza
di ripresa viene contenuto nell'intervallo 1/5 - 1/20 per consentire l'analisi
dimensionale in condizioni ottimali.
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