La determinazione dello stato di conservazione di un
materiale lapideo è necessaria sia per poter studiare l’andamento nel tempo dei
fenomeni di degrado, che per poter valutare l’effetto di trattamenti
conservativi applicabili alle superfici danneggiate. Questo avviene utilizzando
i dati ottenuti mediante analisi di tipo mineralogico-petrografico, fisico,
biologico e chimico. Uno dei parametri importanti e significativi per la
valutazione dello stato di conservazione è la “durezza” della pietra. La sua
determinazione viene effettuata con tecniche mutuate: le più frequenti sono la
determinazione della resistenza a compressione, a trazione, del modulo di
elasticità E, e la determinazione della resistenza alla flessione biassiale o
tecniche di point load, pull-off e pull-out. Queste tecniche forniscono dati
significativi sul modulo di elasticità e sul carico di rottura di un materiale.
Nel settore della conservazione però è importante possedere anche risultati
numerici sulla consistenza dello strato più superficiale della pietra, valori
questi ottenuti in laboratorio mediante l’utilizzo di microsabbiatrice,
sclerometro di Martens e abrasimetro di Taber modificato. Nell’ambito della ricerca finalizzata alla conservazione
ed al recupero dei paramenti murari di Palazzo Santoro a Matera, costruito
interamente con il tufo calcarenitico tipico della zona, si è fatto riferimento
agli studi condotti dalla Soprintendenza locale. Lo studio petrografico eseguito sul materiale lapideo
indica che si tratta di calcarenite a grana medio-fine e mediamente tenace.
L’esame delle caratteristiche tessiturali e strutturali del tufo calcarenitico
ha consentito di riconoscere due varietà fondamentali, rappresentate da
calcareniti intra-bioclastiche e da calcareniti intrabiomicritiche. Alle
caratteristiche strutturali e petrografiche delle due varietà di calcarenite
sono legate le forme della degradazione che si manifestano sulle superfici
esposte alle azioni meteorologiche e rappresentate fondamentalmente da:
disgregazione granulare, degradazione selettiva, patine e croste. Il processo di disgregazione granulare colpisce le
calcareniti bio-intramicritiche, nelle quali il progressivo distacco dei
granuli (intraclasti e bioclasti) è favorito dall’allargamento dei vuoti
intergranulari ed intragranulari progressiva soluzione del
cemento calcitico. Il fenomeno di degradazione
selettiva, invece, dipende essenzialmente da bioturbazioni del sedimento e si
manifesta con la comparsa di forme tubolari e contorte, che rimangono in rilievo o risultano infossate
nel deposito calcarenitico che le contiene.
Questo fenomeno è interpretato
comunemente come “alveolizzazione” ed è legato alla presenza di piste e
gallerie fossili, prodotte da limivori durante i processi di sedimentazione
della calcarenite, riempite da fango. Le bioturbazioni alterano l’omogeneità del deposito
calcarenitico e possono essere caratterizzate, sia da un addensamento di
granuli ben cementati rispetto al sedimento che le contiene, sia da una
riduzione degli stessi e da un accentuato sviluppo dei vuoti intergranulari. Particolare importanza, per il degrado da alveolizzazione, assume il fatto che la calcarenite contenga sempre delle
piccole quantità di sali solubili il cui valore, per la calcarenite di Matera,
si aggira intorno allo 0,2%.
Questa può sembrare una concentrazione molto bassa
e non tale da destare preoccupazioni, ma al contrario, gli effetti possono
essere importanti, a causa della concentrazione del sale, che si verifica
quando i blocchi di pietra sono attraversati da acqua capillare, che poi
evapora vicino alla superficie. Le analisi chimiche qualitative e quantitative indicano
la presenza di solfati, cloruri e nitrati oltre che carbonati. Il contenuto di
questi sali diminuisce, più o meno sensibilmente, a partire dalla superficie
interna fino a raggiungere quella esterna. Dal confronto dei caratteri composizionali del materiale calcarenitico di cava, ricavati dalla letteratura
specializzata, e del materiale di studio prelevato da diversi monumenti e case
di Matera per stilarne una classificazione delle varie forme di degrado, si
evince che i Sali solubili rientrano fra i costituenti del suddetto materiale. La determinazione della struttura chimica del tufo,
effettuata mediante lettura dei campioni attraverso il microscopio elettronico
a scansione (SEM) e le microanalisi X, effettuate nel 1992, dimostrano che il
gesso è presente nelle croste superficiali dei blocchi tifici, mentre negli
spazi intergranulari ed intragranulari , prossimi alla superficie , si
concentrano sovente cristalli di cloruro di sodio e gesso sotto forma di
criptoefflorescenze. L’insieme di questi dati lascia supporre che le forme di disgregazione granulare e di
degradazione selettiva del tufo di Matera sono sostanzialmente dovute a fenomeni
di soluzione , migrazione e cristallizzazione dei Sali solubili costituenti
della calcarenite stessa. L’attraversamento di un muro di calcarenite da parte di
umidità capillare è quindi un fenomeno distruttivo, che trova all’interno della
pietra stessa gli elementi necessari per il suo sviluppo iniziale; l’apporto di
altri sali contenuti nell’acqua che circola all’interno delle strutture può poi
far proseguire il degrado per un tempo indeterminato. È tuttavia da
sottolineare che non resta estraneo al fenomeno di degradazione chimico -
fisica l’incipiente inquinamento di origine antropica, così come testimoniano
le particelle carboniose riscontrate nelle croste presenti sulle superfici
lapidee dei monumenti considerati campioni dello studio.
Il fenomeno dell’alveolizzazione provocato
dall’evaporazione dell’acqua capillare è fortemente condizionato dalla velocità
dell’aria in prossimità della superficie, quindi dal vento; infatti un’alta
velocità dell’aria provoca un’evaporazione rapida dell’umidità e la formazione
dei cristalli di sali all’interno dei pori, nota come criptoefflorescenza,
fenomeno particolarmente distruttivo. Invece, in condizioni di bassa velocità
dell’aria, il liquido raggiunge la superficie e i cristalli di sale che si
formano su di essa determinando l’efflorescenza sono ben visibili e il
tensionamento meccanico prodotto nel materiale è trascurabile. Le
alveolizzazioni fortemente differenziate che si osservano nell’alterazione del
tufo calcarenitico dipendono in massima parte da variazioni locali della
struttura delle pietre, che possono presentare strati di diversa porosità, zone
bioturbate etc.; l’acqua e i sali si propagano seguendo le zone di pietra a
porosità più piccola (cioè i pori capillari), che quindi si alterano
preferenzialmente. La differenziazione del degrado è anche probabilmente
accentuata da piccoli mulinelli, che il vento crea nelle cavità già formate,
provocando un effetto di abrasione meccanica da parte delle particelle sospese
nell’aria, o trovate sul posto, e anche da un’accelerazione dell’evaporazione
nella cavità stessa.
Il tufo calcarenitico presenta anche evidenti effetti del degrado
chimico mediante il dilavamento e la presenza di croste nere. Dopo l’estrazione
dalla cava, la calcarenite subisce delle trasformazioni superficiali per
contatto con l’acqua proveniente dall’atmosfera (acqua meteorica), che in
genere è acida per la presenza nell’aria di gas acidi (essenzialmente anidride
carbonica, mentre anidride solforosa e ossidi d’azoto sono presenti in atmosfere
inquinate); quest’acqua acquista quindi la proprietà di sciogliere il carbonato
di calcio, che è insolubile in acqua pura. L’azione dell’acqua meteorica è
quindi dissolvente (in particolare nelle parti alte degli edifici) e provoca un aumento della
porosità superficiale della pietra per parziale corrosione del cemento micritico o sparitico. Quando l’acqua di pioggia evapora dalla superficie della
pietra, la sua azione è invece incrostante per la deposizione di carbonato di
calcio riprecipitato o di sali diversi in atmosfere inquinate (per lo più
solfato di calcio). Ciò si verifica soprattutto nelle parti basse degli edifici
, dove si raccoglie l’acqua che scola dalle pietre, che si trovano più in alto
trasportando molto bicarbonato di calcio. In zone riparate dall’impatto diretto
dell’acqua di pioggia, non si verifica né scolatura di liquido, con
asportazione di materiale, né riprecipitazione di carbonato di calcio (o
solfato) proveniente da quote più alte.
Queste superfici sono però soggette ai
fenomeni di condensazione (rugiada notturna) i cui effetti non si osservano
sulle superfici esposte perché vengono via via cancellati dalla pioggia. La condensazione deposita sulla pietra il particellato
sospeso nell’aria (polvere, pollini e altro, con l’aggiunta di fumo e
particelle di gesso in ambienti inquinati): le superfici dei fabbricati
divengono quindi “scure” là dove non sono lavate dalla pioggia. L’acqua di
rugiada è anche acida (più acida di quella di pioggia) e provoca una
ricristallizzazione del carbonato di calcio superficiale o una sua
trasformazione chimica (in solfato di calcio, cioè gesso) in ambiente
inquinato.
Queste trasformazioni cementano le croste superficiali. Gli strati scuri ricchi in gesso, formati dalla rugiada
in ambiente inquinato, possono però essere confusi con quelli originati dalle
alghe; tuttavia non si è in grado, per il momento, di stabilire se i due tipi
di alterazione superficiale si alternino o coesistano sulle stesse superfici,
fatto che fino ad oggi era considerato improbabile. Dalle analisi
microbiologiche si evince che i microrganismi che aggrediscono la calcarenite
di Matera sono: alghe verdi (Chlorophycae), alghe blu, licheni e diatomee. Tra i licheni è degno di nota un lichene
endolitico (Verrucaria nigrescens), capace di una certa penetrazione nella
pietra. I tipi di licheni maggiormente riscontrati sui campioni di tufo
analizzati sono tutti nitrofili (cioè preferiscono substrati contenenti
nitrati) ed in massima parte tollerano condizioni ambientali anche leggermente
inquinate. I licheni riconosciuti sui paramenti murari di tufo sono i seguenti: Caloplaga flavescens: specie comune in Italia
su substrati calcarei o su silicati basici; la sua presenza indica substrati
fortemente eutrofizzati, infatti la specie ha bisogno di forti quantità di
azoto (guano di uccelli, fertilizzanti agrari etc.) l’atrio ed il vano scala, presentano un degrado diverso,
più invasivo sulla struttura biologica della pietra e molto più accentuato ed
avanzato rispetto a quello leggibile sui prospetti esterni del fabbricato.
Il degrado di Palazzo Santoro appare quindi inversamente
proporzionale al rapporto fra degrado esterno ed interno della maggior parte
delle strutture tufacee; la spiegazione di questo processo inverso della
distribuzione del degrado consiste nel fatto che il vano scala, seppure sia un
ambiente interno all’edificio è scoperchiato e pertanto è sottoposto agli
stessi effetti del degrado causato dal weathering e per di più questo è reso esponenziale
dall’effetto serra, che si crea al suo interno per l’evaporazione delle
condense, che ivi si depositano in seguito alle escursioni termiche. Questo
stato di fatto crea un microsistema che favorisce la colonizzazione delle
pareti da parte di microrganismi di origine biologica, che insediano sia le
superfici lapidee del manufatto, sia talvolta la loro struttura molecolare.
Infatti all’interno dell’atrio sono evidenti le patine
biologiche, costituite da colonie di
alghe blu o cyanophycae, che conferiscono allo strato superficiale del paramento
murario l’aspetto grigio-bluastro. La loro penetrazione nella pietra è abbastanza profonda
ed è pari a diversi millimetri così
come si può osservare dalle immagini ottenute dal microscopio elettronico a
scansione su sezioni sottili di un campione aggredito da questi microrganismi e
prelevato dal convento di Sant’Agostino a Matera nel Sasso Barisano. Questa stessa aggressione si riscontra anche sulla
pavimentazione dell’atrio, che testimonia oltretutto precedenti tentativi di
ripristino e non di restauro, mediante l’apporto di malte cementizie, operati
senza criterio e rispetto della natura stessa dell’originale pavimentazione e
senza la considerazione degli effetti
controproducenti dell’inadeguato
intervento. Altra patina biologica, ma di diversa natura, si rileva in altre
porzioni di superficie dell’atrio e sui parapetti delle scale, dove è evidente
l’aggressione da parte di alghe verdi, le chlorophycae.
Ovunque nell’atrio e nel vano scala si osservano
depositi superficiali, costituiti soprattutto da guano di uccelli, che è
presente in grande quantità sui gradini delle rampe. Non mancano segni di
degrado relativo a tentativi di ripristino strutturale e funzionale del
fabbricato, sia inadeguati che incompleti, evidenti mediante la presenza di
tracce qua e là di cemento. Inoltre in prossimità del portale di accesso, si
riscontrano segni inequivocabili di atti vandalici, esfoliazione dell’intonaco
ed in prossimità delle superfici voltate anche delle incrostazioni, sotto le
quali probabilmente vi sono colonie di alghe blu.
Quest’ipotesi è avanzata, sia
perché il colore grigio-bluastro di queste alghe si intravede oltre le croste,
sia perché si è a conoscenza della loro
natura unicellulare, che le rende capaci di sopravvivere in condizioni
estremamente difficili. Si individuano poi sulle superfici murarie depositi
ferrosi, conseguenti allo scolo della ruggine di taluni supporti e griglie
metalliche arrugginite, oltre a pellicole
sollevate di più strati sollevati di intonaco applicati in tempi diversi. Ancora sono visibili numerose presenze di tipica
vegetazione abbondante in ambienti abbandonati. Infine sui parapetti delle finestre che si affacciano
sull’atrio si rileva la sovrapposizione di patina biologica e di depositi
superficiali: sovrapposizione di alghe, licheni, guano e scorie di organismi
vari. Fa parte infine del degrado del manufatto, sebbene non
interessi le superfici lapidee, anche lo stato di rovina in cui verte il
portale ligneo di accesso. Gli appartamenti ed i locali che si articolano
nell’edificio e che sono tuttavia disabitati presentano invece un lieve degrado
murario, per lo più di tipo superficiale e limitatamente riferito alla vetustà
dell’immobile ed alla mancata manutenzione, mentre molto compromesse risultano
invece le pavimentazioni del balcone della facciata principale, che mostra il
residuo di un pavimento originario, ricoperto con un primo strato di malta cementizia e da un secondo strato costituito da depositi superficiali.
L’esterno dell’edificio presenta un degrado più uniforme,
sia per la natura dello stesso, che per
la quantità di superficie interessata; inoltre sulla stessa facciata è
possibile riconoscere i segni di un passato intervento conservativo, talvolta
eccessivamente invasivo, ed i segni di interventi murari atti a conferire al
prospetto una precisa lettura della destinazione degli ambienti all’interno. Infatti effettuando l’analisi del
degrado del fronte principale, dalla lettura degli interventi remoti ed invasivi, si ha
conferma delle notizie, seppure esigue, tratte dalla documentazione storica,
che fissa la realizzazione della facciata nei primi anni del 1700, fatto certo
e attendibile anche in seguito alla lettura strutturale dell’edificio, che
costruito con struttura continua portante, vede la parete del fronte principale
incernierata , mentre tutto l’organismo risulta incastrato sui restanti tre lati peculiarità questa,
per la quale, come si è detto nell’analisi strutturale, la facciata è stata
soggetta a cedimenti per rotazione anteriore, in quanto non incastrata al resto
della struttura. Il sopraluce quindi, che è collocato esattamente sopra lo
stemma araldico della famiglia Santoro, denuncia una posizione non armonica
nell’equilibrio compositivo del fronte principale. Risulta infatti a ridosso della trabeazione del portale e
per di più tompagnato senza gran cura, con i giunti fra un tufo e l’altro molto
visibili. Questo intervento probabilmente sarà stato operato in seguito alla
messa in opera del maestoso portale che disabilitava il sopraluce dalla sua funzione tecnica e decorativa.
Altro intervento murario ben visibile in facciata, ma
sicuramente reso necessario in tempi più recenti, è la costruzione sul balcone
del primo piano, di un muretto a secco, che separa le due unità abitative di
questo livello: accorgimento questo, frequente nelle architetture moderne, ma
poco affine all’impianto compositivo delle architetture del passato. Passando invece all’analisi dello stato conservativo del
materiale, con il quale è stato realizzato il fronte principale di Palazzo
Santoro, ovvero il tufo calcarenitico, si rileva che la maggior parte dei tufi
che lo costituiscono e che sono collocati a partire dalla linea di terra fino
al primo piano, hanno subito un degrado di tipo selettivo e specificatamente
risultano variamente alveolizzati e alcuni persino cariati.
Questo fenomeno è motivato dall’orientamento geografico
dell’edificio, che espone il fronte principale a Nord, fattore questo, che
favorisce gli effetti negativi che il vento ha sul materiale lapideo poroso, e
dai fenomeni di risalita capillare di umidità, accentuati dalla presenza sottostante
di cunicoli, cisterne e canali di raccolta di acque reflue, che oltretutto
favoriscono il prolificare di microrganismi di origine biologica, aggressivi e
deterioranti per il tufo.
Per la concomitanza di questi fattori e quindi in seguito all’evaporazione
capillare di umidità per effetto del vento, il tufo calcarenitico di facciata è
sottoposto a formazioni di efflorescenze e criptoefflorescenze, mediante la
formazione di cristalli di sali solubili nell’acqua, rispettivamente in
superficie o all’interno dei pori costituenti l’assetto microstrutturale della
pietra, che si presta a quest’aggressione, perché forse originariamente
bioturbata e costituita da strati di diversa porosità. Come però si è già accennato non si osservano solo tufi
alveolizzati, ma anche numerosi tufi
cariati, che sono determinati, oltre che dai fattori fisici e genetici appena
menzionati, anche dalla variabilità della direzione e dell’intensità del vento.
Questo fenomeno dell’alveolizzazione, infatti, viene
accentuato quando il vento, nelle cavità già formate, crea dei piccoli
mulinelli, provocando un effetto di abrasione meccanica operato dalle
particelle sospese nell’aria o trovate sul posto, che alterano quindi preferenzialmente le cavità già costituite. Questo degrado è principalmente evidente sui tufi che
costituiscono il portale, le cornici
delle finestre del piano terra e su qualche tufo costituente la tessitura
strutturale dei primi tre metri di facciata. Il resto del prospetto invece evidenzia un degrado
biologico, mediante la presenza di tufi aggrediti dallo sviluppo di colonie di
alghe, a cui si sovrappone lo sviluppo di licheni di varia colorazione, che insieme conferiscono al
materiale annerimenti diffusi.
Questa diagnosi, che vede la causa degli annerimenti dei piani superiori nei
fenomeni microbilogici e non nella formazione di croste nere da condensazione,
è avvalorata dal fatto che le stesse croste nere possono formarsi solo su zone
protette dalla pioggia, e queste superfici invece non lo sono, e che il colore
nero bruniccio da esse generato anche in conseguenza della deposizione dei fumi
è ben distinguibile da quello nero bluastro delle alghe. Le stesse poi si
impiantano di preferenza su superfici esposte alla pioggia, e per la loro
natura genetica sono costituite da una superficie collosa che permette loro di
catturare materiale particellato volante (polveri, fumi, e pollini) e
concentrarlo sulla superficie muraria che appare scura, mentre all’interno la
stessa pietra assume il colore verdognolo delle alghe. I restanti prospetti non evidenziano variazioni
tipologiche di degrado e su di essi lo stesso appare molto meno accentuato, con
eccezione solo per il prospetto ovest aggettante nel giardino incolto, su cui
si rileva più presente il medesimo degrado biologico dei tufi dei piani
superiori della facciata principale e qualche traccia di cemento relativa a
interventi di emergenza di varia origine e piuttosto recenti.
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