Nuova feudalità e lotte popolari

Per inquadrare nella maniera più opportuna la figura di Giancarlo Tramontano, occorre considerare alcuni aspetti molto significativi della storia del Regno di Napoli tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. L'ascesa di questo personaggio è infatti stretta­mente intrecciata alle sorti della dinastia aragonese ed agli avvenimenti successivi, particolarmente segnati dalla guerra tra Francia e Spagna in Italia.

Gli aragonesi erano stati a Napoli i protagonisti di una svolta politica assai importante, mirando a rafforzare lo Stato contro il potere baronale. Negli ultimi decenni del Quattrocento si assiste perciò nell'Italia Meridionale ad un profondo ricambio delle classi dirigenti. Le vecchie famiglie baronali, soprattutto i Sanseverino e gli Orsini Del Balzo, tradizionalmente presenti in numerosi feudi anche lucani, subirono allora un duro colpo, che apparve in tutta la sua evidenza negli anni della cosiddetta "congiura dei baroni", della quale il re si servì abilmente per liberarsi dai condizionamenti ancora troppo grandi di quelle antiche e potenti famiglie. Una volta indeboliti questi gruppi dominanti, gli aragonesi avevano favorito la formazione di nuovi gruppi dirigenti, per lo più mercanti ed uomini d'affari, con i quali mirarono a sostituire, offrendo loro anche titoli nobiliari, la feudalità di più antica origine.

Giancarlo Tramontano fu appunto un rappresentante di questi nuovi gruppi dirigenti di estrazione borghese. Ben a ragione egli può perciò essere considerato un "borghese - ­conte", cioè un esponente di quella "borghesia loricata" di cui parlò il Faraglia per individuare questi nuovi gruppi dirigenti, che dalle file della borghesia assurgevano a posizioni di comando economico e politico negli assetti moderni dello Stato aragonese a Napoli.

Il padre di Giancarlo, Ottaviano Tramontano, esercitava un'attività assai prestigiosa, essendo banchiere a Napoli, ed i suoi finanziamenti erano piuttosto richiesti a corte. Giancarlo era perciò destinato a seguire le orme paterne. Esordì con un incarico alla Zecca dell'Aquila, e lì si pose in luce per la spregiudicatezza con cui maneggiava il metallo monetato, invadendo il mercato locale con una quantità enorme di spiccioli ("cavallucci") di scarsissimo valore. Ciò irritò gli aquilani, che, di fronte al rischio di un eccessivo deprezzamento della moneta coniata nella propria zecca a tutto vantaggio delle altre zecche del regno e soprattutto di quella napoletana, reclamarono presso le autorità regie, ottenendo l'allontanamento di quel troppo disinvolto funzionario. Ma Giancarlo, tornato a Napoli, fu nominato nel 1494 maestro della zecca napoletana e nel 1495 fu tra gli "eletti del popolo" nel quartiere di Sant'Agostino alla Zecca. Nel 1497 fu creato finalmente conte di Matera.

Intanto scoppia la guerra: i francesi occupano anche l'Italia Meridionale e la fortuna dei re aragonesi volge ormai al tramonto. Dopo la morte di re Ferrante, il conte Tramontano è ancora al servizio di quella dinastia: aiuta concretamente Federico contro i francesi, ottenendo in cambio altre ricompense. Fu allora, ad esempio, che egli ebbe in concessione, tra l'altro, le saline di Torre di Mare (Metaponto) ed il fondaco del ferro e dell'acciaio a Matera. I suoi legami con la casa aragonese sono ben sottolineati anche nel poema popolare di Ruggiero Pazienza da Nardò in onore di Isabella Del Balzo moglie di re Federico. Tale poema, comunemente chiamato Il Balzino, rievoca le varie fasi della vita di questa regina, e dedica a Giancarlo Tramontano tre strofe di evidente significato: egli infatti è ricordato come il "grande Aragonese", che ha aiutato sia Ferrante che Federico in molte occasioni, ed anche con abbondanti interventi finanziari. Benedetto Croce, che si occupò di questo poema pubblicandone ampi stralci, riportò il brano relativo al conte Tramontano, nuovo conte di Matera, descrivendolo come "notevolissimo tra gli altri", ed anzi come "il personag­gio di gran favore, colui che aveva possentemente contribuito alla restaurazione aragone­se".

La scena è ambientata a Barletta, dove è giunta la regina in viaggio da Lecce a Napoli e dove molti dignitari delle province limitrofe si recano per renderle omaggio:

 

"Poi venne loancarlo de Mathera,

magnanimo signor como io discerno;

de casa de Aragona isviscerato era,

et è mo più che mai et fia in eterno;

et c'ha mostrata la sua fe sincera

havuto ha quel contado et quel guberno,

 questo se chiama lo gran Ragonese,

che mostrato ha suo valor in tucte imprese.

 

lo dixi de questui nel intrare

che fe in Napullo signor re Ferrante,

cum quanta fede volse demonstrare

la sincerità del suo animo constante;

questo se po per tucto predicare

cum verità, et noto è a tucti quanti

che per sua conjuracione et disegnio

venno et obtenne re Ferrante el Regno.

 

Et ultra questo po tante megliara

et milliara de ducati li imprestao

la mano liberai che mai fo avara

el curso de magnanimo mostrao.

La casa de Aragona gli è si ben cara,

 che non ama questo men che quello amao

et ad re Federico ha facto tal servicio

che aspectar nel die gran beneficio."

 

Ma nel 1501 Federico abbandona Napoli sotto l'incalzare delle truppe francesi tornate a prèmere sul suo regno; e Giancarlo Tramontano in quell'occasione preleva dalla zecca un grosso quantitativo di argento (pare si trattasse di 700 libbre) per consegnarlo al re fuggiasco, non senza averne trattenuto una parte per sé. Pur non volendo seguire il re nella sua fuga, gli prestò tuttavia anche una nave personale, la "Ghila", una galera che poi nel 1504 avrebbe fatto naufragio sulla costa genovese.

Restato in Italia, Giancarlo Tramontano visse quegli anni terribili partecipando alle imprese militari in Puglia, sempre contro i francesi, ma questa volta ormai al fianco degli spagnoli. È probabile che proprio la presenza degli eserciti così vicini al suo feudo, lo abbia consigliato di fortificare Matera con quel nuovo genere di fortezze a torri massicce e cilindriche, considerate più idonee alle nuove tecniche belliche e più adatte a respingere i proiettili delle nuove armi che utilizzavano per la prima volta la polvere da sparo. Nel 1502 fu fatto prigioniero per breve periodo sulla via di Taranto e nel 1503 partecipò alla battaglia di Cerignola, che fu decisiva per la vittoria spagnola contro i francesi e per l'inizio della dominazione della Spagna nel Mezzogiorno d'Italia.

Conclusesi le operazioni militari, Giancarlo Tramontano riprese le sue attività econo­miche e politiche a Napoli. Riebbe il suo posto alla zecca; assunse anche l'incarico di governatore e capo delle arti della seta e della lana; vide cioè crescere ulteriormente la sua influenza nella vita sociale e politica della capitale ormai sottoposta alla Spagna. Quando poi nel 1506 Ferdinando il Cattolico entrò solennemente a Napoli, il conte di Matera fu tra i più attivi ad accoglierlo sfarzosamente: aveva anzi a sue spese innalzato un arco trionfale lungo il percorso del corteo reale e distribuì manciate di monete tra la folla, generando un pericoloso tafferuglio nel quale perse la vita un uomo. Il re in persona intervenne per calmare gli animi e per chiudere l'incidente. "A questo modo - scrisse il Faraglia - Giancarlo Tramontano faceva molto dire di sé e si manteneva in credito presso i popolani, che sogliono avere tanto in pregio le larghezze, il lusso e specialmente le feste e gli spettacoli; e, sebbene addivenuto conte avesse combattuto le guerre di Puglia, non pare che fosse veduto di buon animo dai nobili, che lo reputavano ad ogni modo un uomo nuovo ... Il Tramontano voleva primeggiare, essere onorato e careggiato, e i nobili non potevano tollerarlo. La sua forza, fuori l'ordine popolano, veniva meno ed egli restò popolano; ma sapeva bene trovare il modo di parere da più degli altri".         .

Nel 1507 partecipava munificamente alle spese per l'organizzazione del Capitolo Generale degli Agostiniani, che si protrasse per tutto il mese di maggio tra dotte disquisizioni scientifiche e filosoliche, tra feste e banchetti; nel 1510 riuscì abilmente a far rientrare un tumulto popolare appena scoppiato per protestare contro l'introduzione dell'inquisizione a Napoli.

Intanto aveva ripreso i suoi affari, che avrebbero finito con l'influenzare negativamen­te coloro che se ne sentirono danneggiati. Il suo modo di trattare i propri sudditi materani è restato proverbiale, ed anche di ciò è traccia in una famosa ed elegante pagina di Benedetto Croce. "Sono di Matera e mi addimando il villano di Matera". Con queste parole, raccolte, appunto da Benedetto Croce, inizia la narrazione di un aneddoto diffuso per celebrare il senso di giustizia di Ferdinando il Cattolico.

L'aneddoto è abbastanza noto perché qui debba essere riportato per intero: io stesso me ne occupai a metà degli anni '60 prima sulla "Gazzetta del Mezzogiorno" e poi altrove. Basterà qui ricordare che il "villano di Matera", cioè un piccolo imprenditore locale, è rappresentato come una vittima del conte Tramontano, dal quale era stato persino privato delle sue sostanze. Il caso non era raro: sappiamo che il conte aveva agito in tal modo in qualche altra occasione, ad esempio ai danni di un rappresentante della famiglia materana dei Cataldo o De Cataldo; spesso si accampavano persino motivi politici per azioni odiose come queste, e lo scontro tra aragonesi e francesi prima, o tra francesi e spagnoli dopo a Napoli e nelle campagne meridionali aveva fornito più di un pretesto per simili persecuzioni.

Questo "villano di Matera", dunque, colpito personalmente dal potere e dall'arbitrio del conte Tramontano, si recò in Spagna, secondo il racconto raccolto dal Croce, e chiese udienza a Ferdinando il Cattolico, al quale espose le sue disgrazie, reclamando giustizia. Non contento delle promesse del Re, insistette per ottenere lì in Spagna il risarcimento delle sostanze espropriate, temendo fortemente, se fosse tornato a Matera, le ire del Tramontano. Ferdinando il Cattolico, secondo questo apologo, accolse tali richieste, esclamando irritato: "Vadano al diavolo tutti i baroni meridionali, che sono odiosi tiranni!"                                                                                                                       .

Questo episodio, vero o leggendario che sia, è importante, sia perché dimostra la magnificenza di Ferdinando, sia perché sottolinea come ormai era opinione diffusa che già agli inizi del Cinquecento la nuova feudalità, faticosamente messa in piedi dagli aragonesi nei decenni precedenti, aveva assunto i caratteri della vecchia. Del resto, gli episodi di insofferenza e di aperta ribellione contro i feudatari erano ripresi in vari luoghi, e proprio a ridosso dell'uccisione del conte Tramontano.                                                                                                .

Nel 1512, ad esempio, si erano registrati tumulti popolari contro un "malo signore" prima a Martirano e poi a Santa Severina. In quest'ultimo centro, il popolo era sceso in piazza contro il "multo tiranno" Andrea Carafa. Nel 1513, e cioè un anno prima dei fatti di Matera, a Marmera in Abruzzo il popolo aveva invaso il castello ed aveva sterminato tutta la famiglia del conte, scaraventando i nove cadaveri dalla finestra.

Ma la nuova feudalità aveva in più un carattere di maggiore dinamismo imprendito­riale ed affaristico; e ciò certamente suscitava una ostilità specifica nei piccoli operatori economici della campagna meridionale. A Matera l'esuberanza imprenditoriale del conte Giancarlo Tramontano era mal sopportata dalla società locale, che aveva nel conte un terribile e soffocante concorrente. E' interessante notare a questo proposito che poco prima della sua uccisione il conte Tramontano aveva acquistato i diritti su Ginosa, oltre al feudo rustico (masseria) di Girifalco quasi al confine di Matera (doc. 1) .

L'intensificarsi della presenza economica sul piano anche locale di questo conte, aveva ancora di più allarmato i materani, e ciò accrebbe il malumore nei suoi confronti. Tanto più che proprio nell'atto di compravendita di Girifalco appare un riferimento a quel Paolo Tolosa catalano, con il quale il Tramontano era in rapporti di affari. Proprio per liberarsi dagli impegni finanziari assunti con questo personaggio, il conte aveva imposto una contribuzio­ne straordinaria ai suoi sudditi materani, inasprendo ancora di più nei loro confronti la pressione fiscale già alta. A causa di questa ulteriore richiesta di danaro, la città insorse ed, alla fine, il conte fu ucciso. Ciò accadde il 29 dicembre del 1514, di venerdì: "Come enziò dalla ecclesia, cioè dallo Piscopato - racconta il Passaro -, uno Schiavone li donai una ronca in testa et l'ammazzai, et dopo lo spogliaro in camisa; et andaro per le sacchiare la casa, ma l'homini dabbene della terra non lo vollero acconsentire".

Il Racioppi così descrive il clima pesante di quel giorno: "La città va in tumulto; rintocca la campana all'armi; e, vociando morte e vita, vanno in volta col vessillo del re; si aprono intanto le carceri; danno al fuoco gli atti delle pubbliche magistrature; e s'impadro­niscono del castello. Il castellano è scappato via, ma arrestano la moglie; e, penetrati nella dimora del feudatario, cominciano l'inventario, poi il saccheggio delle suppellettili sue, dalla camera da letto alla scuderia. Intanto gli eccitatori, o i moderatori, del tumulto assembrano l'università in parlamento; si tenta di mettere un po' di ordine col creare due pubblici uffiziali che rendessero giustizia e provvedessero ai casi; e questi ricevono in consegna il castello della città. Il cadavere del misero conte, ludibrio alla plebe, non fu abbandonato che tardi alla religione del sepolcro".

Se non si trattò di una ribellione generalizzata, fu certamente una esplicita ed organizzata congiura della città contro il feudatario; ed in questo senso vanno letti i documenti raccolti dal Fortunato e la notizia della ostilità del conte verso alcuni grossi personaggi locali, tra cui il De Cataldo già citato, che fu prima perseguitato anche con il carcere e poi liberato (doc. 2). Da ciò emerge il carattere politico di quel fatto: la città di Matera non solo non volle procedere contro gli assassini, ma non li volle né identificare né consegnare alla giustizia. In tal modo, la comunità materana si riconosceva sul piano politico e morale nel gesto liberatorio compiuto dagli esecutori materiali di quel delitto. Le autorità cittadine, inoltre, condannarono gli atti di sciacallaggio compiuti ai danni del conte e delle sue sostanze; ed i responsabili di questi atti (essi sì!) furono individuati e consegnati alla giustizia, alla stregua di criminali comuni e non degni di solidarietà.

Ma soprattutto le autorità cittadine accettarono le condizioni dell'indulto, che ebbero modo di contrattare dignitosamente con l'inviato della corte, che fu il regio commissario Giovanni Villano. Nell'inchiesta e nel processo che ne seguì, e che si concluse in breve tempo, alla città di Matera fu contestato il reato di complicità, perché non aveva voluto arrestare i colpevoli dell'omicidio del conte. Le autorità cittadine non respinsero questa accusa, né tentarono di difendersi da essa, ma scelsero la via della transazione, loro accordata con la concessione dell'indulto (cioè del perdono liberatorio) dietro versamento di una somma al regio fisco, che fu di dieci mila ducati (doc. 4 e 5).

Questo atteggiamento della città di Matera, apparentemente acquiescente, indica invece che essa non intese minimamente sottrarsi alla responsabilità del grave episodio; che essa non prese opportunisticamente le distanze da esso. Avrebbe potuto dichiarare la propria estraneità e far ricadere la colpa, tutta ed intera, sui "soliti facinorosi", lasciandoli soli nel loro dramma. Non si dimentichi che poteva persino essere invocata la circostanza che come uccisore del conte era stato indicato uno schiavone, cioè un immigrato. Ma i materani non vollero neppure prendere in considerazione questa eventualità, e ciò li onora ancor oggi agli occhi nostri.

 

 


I "SASSI" e il territorio
Veduta dell'abitato che si affaccia sulla gravina


Paesaggio Murgico
Veduta di un tratto della Gravina


Cartolina
E' impressionante la simbiosi Sassi - territorio


Un territorio aspro
L'inospitalità del territorio


Il Torrente
Vista del torrente Pantano


Il Territorio
Scorcio della Murgia Timone


La Gravina
Veduta del taglio della gravina


Panorama
Stupenda veduta dei Sassi


Le Murge
Stupenda veduta delle Murgie