Il quartiere murattiano L’intervento francese. Gli eventi del 1799, anche se di breve durata, rappresentarono una svolta di notevole importanza per la storia del Mezzogiorno d’Italia. L’intervento delle truppe francesi fece crollare un edificio dalle fondamenta già compromesse ed evidenziò in tutta la loro drammaticità le gravi fratture e le contraddizioni della situazione politico – sociale. Furono più d’una le cause che gettarono una luce sinistra sulle istituzioni repubblicane che, agli occhi delle masse, per lo più incapaci di capire tali istituzioni, apparivano come emanazioni demoniache. La grande paura suscitata nelle classi medie e superiori della società dalla terribile sollevazione plebea e contadina del 1799 contribuì non poco a condurre a rapida dissoluzione il movimento democratico. Il regime napoleonico durò, nel regno di Napoli, quasi dieci anni (1806 – 1815), lasciando tracce profonde nello sviluppo sociale e politico del paese. Una delle più importanti riforme realizzate durante questi anni fu la cosiddetta evasione della feudalità. La legge del 2 agosto 1806 dichiarò abolita la feudalità , attribuendo allo stato tutte le giurisdizioni baronali con i proventi annessi; stabilì che le città, le terre ed i castelli dovevano essere governati secondo la legge comune del regno; stabilì che fosse libero e regolato solo dalle leggi comuni l’uso dei fiumi. Insomma, con questa legge si andava a modificare la struttura feudale di governo, facendola diventare così molto più democratica. Molto significativa fu anche l’introduzione delle inchieste statistiche, che si ispiravano ad un rinnovato interesse per il progresso materiale, ancora una volta riprendendo le tradizioni del riformismo settecentesco. Anche le trasformazioni economiche ebbero una certa rilevanza in campo sociale. Per esempio, una certa immissione di criteri di gestione capitalistici ed imprenditoriali nella proprietà terriera, anche se limitata nelle condizioni oggettive del mercato e dalle strutture ormai consolidate dai rapporti di produzione, fece indubbiamente la sua comparsa nel paesaggio rurale meridionale, ed in Puglia in particolare. Le riforme napoleoniche di questo periodo trasformarono in senso moderno e razionale anche l’amministrazione, l’ordinamento giudiziario, la legislazione e le finanze. Vennero, per esempio, creati i Consigli provinciali e quelli distrettuali nominati dal sovrano e che duravano in carica per quattro anni; soppressi i vecchi tribunali napoletani, vennero create al loro posto una Corte di Cassazione e quattro Corti d’appello. In oltre a questo periodo appartiene anche l’espansione dell’istruzione pubblica, la formazione di un ceto di funzionari, di magistrati, di ufficiali, di origine in parte nobiliare ed in parte borghese, composto di uomini capaci e desiderosi di estendere la loro influenza. In definitiva le riforme del decennio attuarono nel regno di Napoli piuttosto un decentramento che un accentramento. Certo, il nuovo stato era accentrato nel senso che il potere centrale, il governo, i vari ministeri erano più efficienti di prima, si sforzavano di seguire e regolare la vita delle comunità con norme uniformi; ma rispetto all’antico regime, in cui vi era una netta separazione tra una capitale di enormi dimensioni ed una campagna organizzata per province, il nuovo sistema favoriva lo sviluppo delle forze e delle attività locali. Così, mentre Napoli cominciava il suo lento, ma inesorabile declino, iniziava un nuovo sviluppo dei capoluoghi provinciali. Esempio emblematico di questa nuova realtà fu, tra gli altri, quello di Bari. I piani per la realizzazione del Borgo: cronologia, alternative, sviluppo.
Il problema dell’ampliamento della città al di fuori delle mura con la fondazione di un "nuovo borgo",
premessa di fatto alla "riformazione della città", coincide alla fine del Settecento con un periodo di
massimo rivolgimento della situazione politica europea che vede, nelle province borboniche, gli effetti immediati di
trasformazioni economico – sociali e delle stesse strutture amministrative. Dallo stato di profondo appiattimento su una
condizione urbana immutata da secoli, con la nascita dello stato borghese viene acquistata un’aspirazione alla trasformazione
la certezza ormai di poterla realizzare.
In questo quadro generale di mutamento, Bari assume un ruolo particolare e trainante. Il documento ufficiale che segna
l’inizio della vicenda della fondazione del "borgo nuovo" e l’inizio contestuale del processo di emarginazione del
centro antico è l’istanza portata nel 1789 a re Ferdinando IV dai due sindaci, Michelangelo Signorile per il Popolo
Primario e Carlo Tanzi per i nobili, dove si parlava della creazione di un borgo, cioè un’espansione subalterna all’
impianto urbano originario.
Concessa l’autorizzazione da Ferdinando il 26 febbraio 1790, venne incaricato dell’esecuzione del piano l’architetto barese Giuseppe Gimma. Dopo varie vicende, la zona scelta per la realizzazione del borgo fu la zona a ridosso del nucleo storico, compresa tra gli allineamenti delle due porte, del Catello e della Marina, principalmente per la salubrità del terreno e dell’aria. Il 18 dicembre 1790 il piano veniva approvato, ma fu reso subito vano dall’opposizione o eccessiva prudenza del la nobiltà proprietaria che non voleva vendere o non aveva il coraggio di costruire sui terreni extraurbani. Queste di fficoltà vennero superate con il regno di Gioacchino Murat, e nel 1812 venne incaricato l’architetto Gimma di studiare ex novo la pianta del borgo. L’elaborato che ne venne fuori è andato perso, ma è possibile ricostruirne le indicazioni dal successivo sviluppo dell’edificazione. La pianta venne approvata da Murat l’8 aprile 1813, ed egli stesso il giorno dopo poneva la prima pietra della nuova espansione. Le possibilità di sviluppo prese in considerazione nella realizzazione dei piani sono tre, differenti tra loro sostanzialmente per il modo in cui il borgo viene agganciato alla città preesistente. Il problema maggiore è quale debba essere la strada principale, o le strade, su cui innestare la rete stradale di supporto al borgo. Come prima ipotesi in tal senso si pensa che la scelta più funzionale potesse essere quella della previsione di sviluppo lungo la strada regia per Napoli, che si innestava su porta Castello. Questa soluzione avrebbe consentito un rapporto di integrazione tra le due parti della città, si sarebbe avuta, praticamente, una proiezione all’esterno della città vecchia. A questa prima proposta, scartata per salvaguardare l’agibilità del castello, segue quella che sposta il borgo in asse con la porta a Mare. Anche in questo caso si ripropone una possibilità di sviluppo, corrispondente ad un asse viario, che si innesta su una porta mantenendo qualche analogia con la soluzione precedente. La soluzione prescelta è, invece, quella relativa ad un’area di sviluppo compresa tra le due porte: quella verso il castello e quella verso Mola. Il borgo è accostato alle mura ed esteso tra due elementi prefissati: il convento dei Padri della Missione e la cappella dei Sartori. Da questa scelta iniziale lo sviluppo della città rimase segnato definitivamente ed ogni elemento tipico della più elementare tematica di sviluppo della città ottocentesca meridionale con i temi classici che vi ricorrono più frequentemente quali il teatro, la villa, la stazione, verrà appiattito alla dimensione di singolo tassello, l’isolato, posto casualmente in un tessuto prevalentemente omogeneo. Finalmente annullate le necessità militari che ancora giustificavano il limite delle mura, Bari poteva affacciarsi sul territorio. Nel 1819 l’intendente trasmetteva al sindaco l’autorizzazione al prelievo dei fondi per demolizione della cinta muraria e della porta Castello al fine di poter realizzare una reale connessione con il nuovo borgo. Il piano così ideato, presto divenne uno schema di sviluppo, un meccanismo di crescita illimitata, che trovo solo nei propri limiti fisici le ragioni del proprio esaurimento. Questa evoluzione del piano fu certamente favorita dalla perfetta compenetrazione che si ebbe tra lo schema del piano e l’atto di espropriazione. Gli inizi di lavori del borgo.
La realizzazione del borgo prese avvio di fatto il 28 febbraio 1815, quando venne rilasciata la prima concessione di suolo. Gli assegnatari delle prime due concessioni non erano di estrazione nobile, e ciò ci consente di fare una considerazione di carattere generale. Fu proprio il nuovo popolo, cioè i nuovi proprietari, che avvertì fortemente l’esigenza di espandersi oltre le vecchie mura, mentre le famiglie di antica nobiltà e del popolo primario rimasero ancora per parecchio tempo abbarbicati ai loro palazzi nella città vecchia. Nel 1817 si procedeva alla demolizione di porta Castello, e nel 1821 Giuseppe Gimma studiava su una piano per collegare la città antica alla nuova espansione; venivano migliorate le vie di comunicazione e, in qualche caso, dotate di alberatura. L’edificazione, d’altronde, procedeva in fretta: le isole costruite erano già tre nel 1818, dieci nel 1826, di cui quattro sulla via del Mare, quattro al Corso, due sulle antiche vie della Cappella dei Santi, due sulla via di Carbonara e Altamura. Nel 1828 veniva approvata la prima variante agli statuti murattiani, ultimo atto della depurazione del Borgo prima del suo definitivo scioglimento. La prima deroga alla norma edilizia degli statuti, venne richiesta da due concessionari di lotti, prospicienti l’antica via che immetteva nella strada per Carbonara, per la costruzione dei terzi piani ai loro palazzi. Era una precisa richiesta di deroga alle norme sulla edificazione, che il mantenimento degli orizzontamenti tra lottisti contigui. La variante venne concessa interpretando disposizioni circa la perfetta simmetria nel senso limitativo di prosecuzione a quanto era necessario per la decorosa esecuzione del terzo piano, senza l’obbligo della contemporanea elevazione dei terzi piani da parte degli altri concessionari. La soluzione approvata apparve subito gravida di conseguenze: permettendo ai singoli di realizzare fabbricati, modificando a piacimento l’iniziale fabbrica a due piani, si dava via libera ad un’azione che travolgeva il principio di ordine armonico che era alla base dell’intero piano di Murat.
Nella rapida successione di iniziative sono da ricordare la richiesta di istituire in Bari una Camera consultiva del Commercio del 1829 e nel 1830 l’istituzione di una pubblica Biblioteca, con l’inizio dei lavori di pavimentazione del Borgo. L’anno seguente, in oltre, una delibera del comune adibiva a prigione il castello, decretandone così l’inesorabile decadenza, in fine nel 1840 veniva posta la prima pietra del teatro Piccinni. Nel considerare le iniziative che segnarono la trasformazione del Borgo, bisogna tener presente la semplicità ed esiguità delle attrezzature pubbliche che hanno in genere caratterizzato e formato la città ottocentesca. Risultato connesso con la logica interna del piano, che tendeva alla esaltazione della quantità residenziale rispetto alle attrezzature, confinate al ruolo di simboli relativamente rappresentativi, privi della capacità di incidere sull’assetto della forma della città come elementi organizzatori del sistema urbano. Sul fronte del Corso, infatti, un isola venne destinata al teatro, precisamente la sesta, all’altezza del palazzo dell’Intendenza, la cui presenza sul fronte opposto veniva a creare un riferimento ed una previsione già esterni alla maglia; nella quarta linea, la terza isola venne destinata alla chiesa e questa volta la casualità della collocazione sarà solo riscattata dalla successiva riqualificazione funzionale e rappresentativa della strada, via Sparano, su cui insiste l’edificio. Intorno alla seconda metà del secolo data l’arrivo della ferrovia a Bari. Il tracciato fu previsto lontano dalla città e l’ubicazione dell’edificio della stazione fu pensata in un primo tempo in fondo all’attuale corso Cavour, spostato poi in asse con via Argiro e poi con via Sparano, la stessa strada che dopo la costruzione della chiesa divenne l’asse emergente del Borgo e che ulteriore incremento doveva ricevere nel diventare "la via della stazione". La ferrovia, orientata lungo le strade del Borgo, diveniva un limite artificiale alla progressione edilizia, ed ancora una volta un tema classico della città ottocentesca venne sacrificato alle ragioni di una crescita ordinata e progressiva. Ma il tracciato della ferrovia, pur fissato con larga ampiezza, dovrà rilevarsi sottodimensionato rispetto alla espansione edilizia divenuta incalzante dopo l’Unità. Riproponendo gli aspetti negativi, che il mantenimento della cinta muraria aveva causato in passato quando era chiamata a comprimere l’espansione naturale della città, l’insediamento della ferrovia, anche se coerentemente inserito nella logica del disegno planimetrico, bloccava il meccanismo ripetitivo del piano, si poneva come limite fisico contro la perpetuazione del sistema insediativi, introduceva un elemento di turbamento e poi di disordine, costituendo il problema della città e della sua futura forma.
Regime delle aree. Le isole potranno essere occupate da più possessori secondo la loro condizione, cioè l’area sarà lottizzata a seconda della richiesta del singolo utente; ma la varietà dei frazionamenti non dovrà compromettere l’eguaglianza degli edifici. Un decreto del 14 dicembre 1814 con il quale si approvavano gli statuti stabiliva un canone annuo pari a grana 45 per canna quadrata sulla via principale, l’attuale Corso Vittorio Emanuele, e grana 30 indistintamente per i rimanenti suoli, canone questo che poi venne ridotto rispettivamente a grana 30 e grana 20. In una forma urbana così semplice l’elemento prevalente resta, naturalmente, il rapporto esterno che si crea tra il nucleo antico, recintato dalla nuova cortina edilizia sul corso, con il nucleo d’espansione. All’interno del Borgo sia la limitata combinazione degli elementi che il controllo estremamente rigido previsto, affermano un’iniziale volontà d’insieme che tende a ridurre l’elemento base, che è l’isolato, ad un "modulo" di una composizione globale. I lotti, per lo più riferibili al tipo edilizio signorile, hanno uno sviluppo notevolmente ampio, ed è già immediatamente registrabile l’accompagnarsi di due diversi criteri di utilizzazione: l’uno proporziona la sezione edificata per la formazione di un ampio affaccio interno; l’altro, sfrutta intensamente l’area spingendo l’edificazione sui confini ed organizzando l’edificio su un sistema di chiostrine interne. Le tipologie edilizie.
Gli statuti murattiani consistono in apposite norme edilizie unite a norme di procedura amministrativa da applicarsi alle aree edificabili che il comune cede ai privati. Un’analisi condotta sull’utilizzo dei lotti, ci restituisce delle indicazioni che ci fanno capire come questo problema non sia riconducibile ad un’idea di regolarità. Vi è, per esempio, una norma, secondo cui si prescriveva un’area scoperta da proporzionare nel complesso dell’isolato, che però non incideva con la stessa proporzionalità su ogni singolo lotto, e che doveva essere delimitata in un disegno generale predisposto dall’architetto direttore, figura questa che riequilibrava le richieste dei singoli concessionari. L’area scoperta, come "insieme", diventa lo stato intermedio che deve garantire l’igiene all’intero isolato e la sua agibilità interna, ed infine ogni isolato si forma in base all’aggregazione di unità edilizie la cui posizione reciproca assicura tale stato intermedio. L’esigenza del controllo d’insieme della città porta quindi ad un ampliamento dell’intervento pubblico che in teoria impone volta a volta il progetto a eseguirsi. La volontà di forma che gli amministratori vogliono realizzare si concreta in una prassi di cui vanno considerate conseguenze ed effettive possibilità. I vari Gimma e Prade si attengono scrupolosamente agli statuti che impongono le dimensioni degli edifici e descrivono come canonici quell’ordine e simmetria, quella regolarità ed uniformità che muovono al bello e che riassumono la precisa volontà artistica di cui è informato tutto il piano anche contro la volontà dei proprietari. L’altezza modesta degli edifici, circa 12 m in quelli originari a due piani, e l’assenza di direttrici verticali (le poche paraste appaiono là dove è necessario sottolineare la lieve emergenza dell’avancorpo centrale), sono i fattori che dimostrano ulteriormente come in questi prospetti si sia tenuta sempre presente, come costante prevalente, la dimensione orizzontale in funzione di un’estensibilità indefinita delle cortine. L’uniforme tessuto delle facciate murattiane è sentito essenzialmente come cortina – diaframma tra spazio urbano e spazio privato ed ogni prospetto è concepito più in relazione con tutti gli altri immediatamente precedenti e seguenti lungo l’asse viario, che con la struttura del singolo edificio. L’abbattimento delle mura e l’attuazione del piano. L’abbattimento della cinta muraria, sancito il 18 ottobre 1819 con autorizzazione dell’intendente al sindaco per il prelievo dei fondi necessari, immetteva nello sviluppo di Bari il tema classico della città ottocentesca. Il superamento del perimetro murario, con la sua possibile conservazione o distruzione stabiliva il momento cardine del rapporto tra la struttura antica e quella nuova, in quanto la soluzione di questo problema, in un modo o nell’altro, determinava la maniera in cui queste due parti della città sarebbero entrate in comunicazione. In altre precedenti esperienze, e si pensi alla straordinaria varietà espressa al riguardo dell’urbanistica francese per tutto il settecento, l’abbattimento della cinta muraria ne consentiva una sua memoria quale perimetro della città, con la creazione del viale di circonvallazione e parzialmente una sua identificazione spaziale – architettonica, anche se limitata alla conservazione delle porte, a tutto vantaggio di un’articolazione a cerniera tra la città antica e la nuova. A Bari, invece, la distribuzione spaziale contrapposta delle due parti e non ultima l’inesistenza di tracciati emergenti nel fitto tessuto del nucleo antico capaci di proiettarsi con incisività sul nuovo asse distributivo, determinava la sola formazione di un fronte di contenimento che sanzionava definitivamente al livello di scala urbana lo stacco netto tra le due parti e l’autonomia delle due posizioni. La relazione tra Borgo e città era quella tra due fronti opposti: interna ad essi nasceva la funzione tipica della "strada – corridoio", centrata sulla coppia funzionale e rappresentativa: Palazzo dell’Intendenza – teatro. Il Corso era destinato a diventare l’asse privilegiato di una rappresentatività tutta interna al "corridoio", interamente misurata sul carattere privato e borghese delle residenze, la cui importanza tuttavia verrà limitata nel tempo, via via che si affermeranno gli altri percorsi eminentemente commerciali. A differenza della tendenza prevalente nella città ottocentesca, in cui si organizza all’interno di una complessa intelaiatura rappresentativa il fondamentale sistema primario di manufatti e di spazi urbani, a Bari il solo Corso ne rappresentava l’intelaiatura principale e ne svolgeva, con efficacia, la sola funzione del capovolgimento del rapporto con la città vecchia controllata definitivamente attraverso la cortina di contenimento. Del resto corrispondeva a questo proprio la mancanza di un’intenzione unificatrice delle due parti della città da esprimere fisicamente ed anche ideologicamente come sistema continuo di poteri e di funzioni. Tra la vecchia classe aristocratica, che restava ancorata ai valori della città storica, e la borghesia emergente esisteva lo stesso divario e la stessa incomunicabilità che caratterizzava la crescita della città nuova. La scacchiera era stata tracciata senza tener conto delle possibilità offerte dalle principali emergenze monumentali. Le torri del castello, il campanile della cattedrale o la cupola di Santa Teresa dei Maschi, avrebbero potuto ben costituire gli elementi fondamentali di alcuni degli assi nord – sud, assicurando una caratterizzazione visuale ed alcune strade. In effetti premevano già latenti, problemi e difficoltà nella riutilizzazione dell’antico che, pur non appartenendo alla sensibilità dell’epoca, derivavano dalle caratteristiche della città vecchia, la cui struttura non lasciva spazio per interventi di ristrutturazione in scala con la nuova dimensione urbana. La presenza di un tessuto edilizio minuto ed inestricabile non poteva consentire altro che la sostituzione o la conservazione attraverso la rivalutazione dell’ambiente, soluzione quest’ultima evidentemente prematura rispetto ai tempi. Escluso ogni rapporto con la città antica, la maglia generale della città produceva automaticamente una scacchiera viaria che nella sua globalità di sistema, inglobava la forma della città. La fondamentale caratterizzazione dell’impianto urbano nasceva solo nell’unità architettonica fondamentale (l’isolato), ma di per sé privo di qualsiasi delimitazione territoriale e funzionale, e con il volgere degli anni e con il disgregarsi del meccanismo dell’espansione edilizia, troppo deboli apparivano i limiti, puramente convenzionali e quindi facilmente scavalcabili, stabiliti dalle successive vie estramurali o dalle cinte daziarie. Senza mai conoscere lacerazioni, rotture e ricuciture, tipici dei sistemi urbanistici in fase ciclica di ristrutturazione, l’elemento evidenziatore dello sviluppo restava costantemente evidenziato entro il campo omogeneo di una struttura insediativa il cui confine veniva continuamente differito. In tale impianto, che appariva subito estensibile a volontà a seconda della spinta economica in qualsiasi direzione, almeno fino all’intersezione della ferrovia che fissa una temporanea chiusura a Sud, gli stessi elementi emergenti per impegno formale e funzionale venivano riassorbiti e reintegrati. La mancanza di ogni fattore monumentale come punto di riferimento dello sviluppo stesso e l’insistenza di una relazione fra infrastrutture e residenze capace di incidere nella sua forma, riducevano ad un’omogeneità fisica determinabile anch’essa solo dall’esterno. |