L'arredo interno

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La porta principale immette nel piccolo, armonioso organismo architettonico, sormontato dall'invaso ottagonale della cupola. Una lunga, semplice
cantoria lignea, un tempo presumibilmente corredata di organo, la sovrasta, conclusa ai margini da volute dorate e testine policrome, nonchè cifrata nel mezzo dallo stemma confraternale che reca le lettere MMM (Maria Mater Misericordiae). La parete che la fronteggia, destinata all' altare maggiore, conserva dell'originiario assetto il fastigio dell'arco, che accoglieva altare e corona relativa, ornato ancora dallo stemma dei Vives in chiave e campito nel sottarco dalla colomba dello Spirito Santo. All'interno della Chiesa, si notano due raffigurazioni dello stemma della nobile famiglia Vives, l'una scolpita sull'arco dell'altare maggiore e l'altra dipinta alla base della pala dello stesso altare. Lo stemma si presenta partito. Nel primo, ossia nel lato destro di chi utilizza lo stemma come uno scudo, vi è la metà dell'aquila imperiale coronata, di nero in campo d'oro, per concessione fattane nel dicembre del 1535 dall'Imperatore Carlo V al valoroso Capitano degli eserciti Antonio Vives per sè e per i suoi eredi. Nel secondo, troncato, alla fascia di oro sulla partizione; di sopra alle tre stelle d'oro (variante: alle tre crocette d'oro) in campo azzurro; di sotto ai due pesci sulle onde. Trasferitisi dalla Spagna, e precisamente da Valenza a Napoli, i Vives vennero nella Provincia di Bari in persona di Antonio, nipote del predetto, nominato verso il 1557 Regio Castellano di Barletta, donde passarono in Bisceglie per il doppio parentado contratto con la famiglia Frisari, in quanto Giovanni Andrea Vives sposo Virginia Frisari ed Emilia Vives sposo Antonio Frisari. Si distinsero nelle lettere e nelle armi occupandone i posti più ragguardevoli. La famiglia si estinse nel 1814 in persona di Orazio Vives, il quale nominò suo erede Giancarlo Berarducci, nipote di Anna Vives, Giudice della Gran Corte Criminale e residente in Lecce, il cui figlio Girolamo, per espressa volontà del testatore, aggiunse il cognome Vives a quello dei Berarducci, dando luogo a quel ramo della famiglia, che a sua volta si estinse nei Castriota Scandemberg. La ragione della presenza dello stemma dei Vives nella Chiesa la scopriamo leggendo il testamento del Clerico D. Francesco Vives di Girolamo (Not. Colantonio Mastrapasqua, 8.4.1651) il quale, morendoin ancor giovane età, nominava erede universale sua madre Vincenza Frisari e fondava un Beneficio pio laicale, a favore dei discendenti dei suoi fratelli, consistente in molti beni immobili con il peso di celebrare duecentocinquanta messe annue per il fondatore, cioè cento sull'altare dei Santi Martiri nella Cripta della Cattedrale e centocinquanta in qualsiasi altra chiesa ad libitum del possessore. Costui lasciò, inoltre, a titolo di legato, "alla reverenda Chiesa della Madonna della Misericordia fuori le muraglie della Città ducati trenta da esborsarsi fra due mesi e da applicarsi ad arbitrio dei signori miei fratelli fra detti due mesi". La disposizione venne eseguita, trovandosi al margine la quietanza in data 13 dicembre 1652 a firma di D. Francesco Berarducci e Giovanni de Cillis, Deputati della Chiesa di S. Maria della Misericordia, che dichiaravano di aver ricevuto da Vincenza Frisari, erede legittima del Clerico Francesco Vives ducati trenta perch&egare li utilizzassero e li spendessero per la fabbrica di detta Chiesa con il consenso dei Sigg. Giovanni Andrea, Clerico Antonio ed Alfonso Vives, fratelli del defunto Francesco. Dalla particolare collocazione dei due stemmi &grave facile arguire che la somma venne utilizzata per la decorazione dell'altare maggiore e per la esecuzione del dipinto su tela, tuttora esistente, raffigurante il Padre Eterno in alto, S. Fortunato a destra e sulla sinistra S. Francesco d'Assisi che incornicia l'immagine della Vergine dipinta sul muro e protetta da un cristallo, cosi come, secondo alcuni appunti del Perotti, la descrisse il Vescovo Sarnelli visitando la Chiesa nel 1693.

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Qui furono allogati il dipinto murale, cellula generante dell'intero edificio, e la pala d'altare che fu voluta a sua degna cornice. Il nuovo edificio sorse inglobando la porzione ritagliata del muro interessato dal dipinto, in tempi recenti staccato e trasferito su supporto autonomo; l'arbitrario restauro ha affievolito la soffusa grazia dell'immagine, marcandone i contorni, intensificandone la cromia, irrigidendone la delicata morbidezza degli incarnati e dei panni e congelandone la tenera comunicatività affettiva. Lo stato dell'opera precedente il restauro e leggibile in una
foto anteriore all'intervento; lo strato pittorico vi appare compromesso anche dalla deplorevole consuetudine della forzata inserzione delle corone argentee e, inoltre, i tratti del volto della Vergine, i grandi occhi scuri, la piccola bocca imbronciata mostrano di essere stati ripresi in un momento tardo, probabilmente ottocentesco. Il distacco dell'affresco, portando alla luce il supporto in conci di pietra, ha rivelato altri due strati pittorici, il più recente dei quali presenta tracce evidenti di un dipinto analogo all'attuale per soggetto e campiture cromatiche, segno del proporsi periodico di una ristesura totale del dipinto, probabilmente predisposto dalla sua stessa collocazione all'aperto ad un facile degrado. Da quanto tempo sorgeva la "Cappelluccia", oggetto della pia attenzione dei biscegliesi e chi ne aveva dipinto l'immagine ospitata? Situata "sotto le mura di questa Città et proprio vicino l'orto di Colagiacomo Frisari", la piccola cappella, di cui non conosciamo le dimensioni, probabilmente poco più di un'edicola, sembra essere sorta in terra di nessuno,lungo la via Consolare che portava a Molfetta, materializzazione dello stesso devoto pensiero senza tempo che a tutt'oggi punteggia di immagini devote e cippi votivi vie e viottoli in paese e in campagna. Sappiamo per certo solo che nel 1645 esisteva, possiamo ragionevolmente dedurre che l'edizione a noi pervenuta dovesse sussistere da almeno due generazioni, il tempo necessario perchè si venisse a produrre intorno all'icona la temperie devota e grata che le carte palesano; il succedersi degli strati dipinti ed il tipo antico della muratura di supporto potrebbero portarci indietro di un altro secolo ed indurci ad ipotizzare quattrocentesca la prima stesura dell'opera; presentano tracce di iscrizioni graffite sia il documento fotografico che la larvata stesura pittorica messa a nudo dal distacco, segno che anche quest'ultima era stata per un certo tempo a vista. Nel nostro dipinto la Vergine è avvolta nel maphorion blu che le copre il capo; una nota inconsueta e il velo candido che si incrocia sotto il mento ad incorniciarle il volto; il Bimbo indossa una tunica rosata; l'orlo della camiciola ne sottolinea lo scollo, la piccola manica e appena rimboccata. L'elemento più importante, rimasto inalterato nel reiterarsi delle edizioni e dei restauri, e l'iconografia dell'opera: la posizione delle due figure, le guance accostate, lo sguardo del Bimbo rivolto alla Madre, che a sua volta fissa lo spettatore, la mano della Madre sulle spalle del Figlio, la manina di questi sul velo della Madre. E lo schema della Glykophilousa, altrimenti detta Vierge de Tendresse, Vergine della Tenerezza o affettuosa, uno schema antico di matrice costantinopolitana, ancora riproposto in Puglia, e sull'altra sponda dell'Adriatico, in icone bizantineggianti (si veda la tavola, attribuita a Donato Bizamano, nel Museo Provinciale di Lecce) nella seconda metà del Cinquecento, qui reinterpretato in chiave occidentale, ed invertendo la posizione dei due protagonisti, da un "madonnaro" dalla mano esercitata su modelli di cultura adriatica, veneto-umbro-marchigiana, in Puglia spesso associati ad un nome che, più che riferirsi ad una personalità ben precisa, individua piuttosto una corrente, Francesco Palvisino da Putignano (si veda la tavola della Madonna di Costantinopoli nella Collegiata di Bitritto).

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Tra le "chiese fuori di Città, e per lo Territorio", il vescovo Sarnelli cita "S. Maria della Misericordia, Chiesa moderna non lungi dalla Città, e retta dal Capitolo della Cattedrale. Fu edificata nell'anno 1645, abbellita e compiuta nel 1650, qui presso era l'antica Chiesa di S. Fortunato". L'antichità di quest'ultima e nota: sue proprietà terriere risultano indirettamente dall'atto di donazione del giudice Falco (1197), in quanto confinanti con quelle offerte in dotazione alla nascente chiesa di
S. Margherita; inoltre essa è il primo luogo in cui il vescovo Amando fa temporaneamente deporre le reliquie dei SS. Martiri appena rinvenute (1167), dove esse effondono ineffabile odore e dove "meglio e piu onorevolmente riposano, sia per la frequentazione del luogo che per la difesa della torre e la bellezza del sacro tempio", fondato nel 1136, come ancora testimonia un'iscrizione erratica in S. Margherita, dal giudice Simeone figlio di Mauro, ad onore dei Santi Fortunato Vescovo, Mauro Martire e Simeone il Giusto. Tutto questo è detto perchè uno dei due Santi raffigurati nell'opera in esame è individuato come S. Fortunato dal Sarnelli, in una sua perduta Santa Visita del 1693, letta e annotata dal Perotti; l'immagine del Santo starebbe allora in qualche modo a rammentare, come un genius loci, la preesistente sua chiesa. La grande tela si squaderna intorno al vuoto riquadro centrale, destinato ad accogliere e porre nel giusto risalto il dipinto murale della Madonna della Misericordia. La zona superiore della tela è dominata dal Padre Eterno benedicente con la destra e recante con la sinistra il globo, sormontato dalla croce; nubi ed un tenero stuolo di cherubini lo circondano, la colomba dello Spirito Santo stende le sue ali sul riquadro centrale, a sua volta idealmente sorretto da un delizioso cherubino tradotto su un piano pittorico da un manufatto plastico, marmoreo o ligneo. Si collocano ai lati S. Francesco, in atteggiamento di orante, ed un giovane santo, recante la palma del martirio ed avvolto in un ampio mantello rosso, che indica soavemente la Vergine e che è stato, come si egrave detto, identificato con S. Fortunato, non considerandone la qualifica vescovile, peraltro correttamente rammentata nell'iscrizione di Simeone. Dovrebbe trattarsi di S. Fortunato di Todi, vissuto nel VI secolo, che fu vescovo e non subì martirio; ne parla S. Gregorio Magno nei suoi Dialoghi; e confuso a volte con S. Venanzio Fortunato, coevo, vescovo anch'egli, ma di Poitiers, e parimenti morto di morte naturale; non rimarrebbe che S. Fortunato da Montefalco, un sacerdote martirizzato verso il 400, raffigurato, però, con la propria testa nelle mani, in quanto che fu decapitato. Non potendo non dar credito al Sarnelli, testimone cronologicamente assai prossimo alla data di nascita del dipinto, sembra più probabile che, in mancanza di qualificanti attributi noti in loco, dove il culto di S. Fortunato non risulta essere mai stato particolarmente fervido, sia stata assegnata al santo un'iconografia neutra ed indefinita. Lo stemma dei Vives, parzialmente conservato, occupa la base della composizione ed insieme allo stemma, che campeggia perfettamente leggibile in cima all'arcata che accoglie il dipinto, permette di datare l'intera impaginazione dell'altare, dipinto compreso, ad un momento di poco successivo al 1651, quando la chiesa risulta beneficata da un lascito della nobile famiglia. I Vives, di origine valenzana, erano giunti in Terra di Bari nel 1557 con Antonio Vives, Regio Castellano di Barletta, e subito dopo avevano contratto parentadi con i Frisari di Bisceglie; il loro stemma compare anche sul piede del reliquiario del sangue di S. Mauro, nel Tesoro della Cattedrale. Il dipinto e di notevole qualità armoniosamente strutturato, in ordine ad una accademica volontà di disciplina, solidamente disegnato ed intriso di una calda luce unificante di tono vandyckiano, suggerisce una cauta attribuzione ad un pittore ben noto, la cui attività si svolse soprattutto tra Napoli, Conversano e Barletta, dove l'opera fu probabilmente commissionata, dati i legami dei Vives con quella città, sede dell'ultima attività della sua rinomata bottega. Cesare Fracanzano (Bisceglie 1605 - Barletta 1656) e in Puglia un sensibile interprete della vivace e variegata cultura napoletana della prima meta del Seicento, a lungo tributaria della nitida compostezza del classicismo emiliano e sul punto di accedere alla risentita gestualità del maturo barocco. Il morbido svolgersi delle pieghe, il languore del viso e gli stessi lineamenti del volto efebico suggeriscono di accostare il S. Fortunato alla "S. Elena" autografa, dipinta dal Fracanzano per la chiesa di S. Maria di Nazareth a Barletta, mentre il bel cherubino centrale rinvia al volto estatico della Maddalena nella chiesa di S. Domenico Maggiore a Napoli, riprendendone il luminismo raffinato. La formazione manieristica del pittore, legata a Fabrizio Santafede (attivo 1576-1628), lo induce ancora a considerare con rispetto e a riproporre i modelli del Maestro, ravvisabili soprattutto nel volto del S. Francesco e nel volo di cherubini nella tela del Santafede, raffigurante la "Madonna delle Grazie e Santi" nella chiesa di S. Domenico a Ruvo di Puglia.

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L'
accesso secondario della chiesa e sovrastato, all'interno, da una cornice in stucco decorata da una conchiglia centrale; qui fu collocata, come sopraporta, la tela raffigurante i Santi Martiri Mauro, Sergio e Pantaleone; si trattava, anzi, di tre tele cucite insieme, che il restauro ha voluto scindere evidenziandone l'intenzionale, arcaica struttura a trittico, fattore di estremo interesse in quanto il dipinto in esame e la più antica raffigurazione dei santi patroni a noi pervenuta, eseguita da un autore locale, quindi non influenzato o distratto da stilemi ed estetismi appartenenti ad altre aree culturali. Costituisce il suo pregio proprio la evidente connotazione popolaresca e devozionale, che ne sancisce l'adesione umile e fedele ad un modello aulico perduto, ma sospettabile. A parte un bellissimo affresco quattrocentesco di matrice padana nella chiesa di S. Caterina di Galatina, uno splendido olio cinquecentesco di scuola veneta nel Museo Diocesano di Bisceglie e 1'altorilievo lapideo di marca adriatica posto alla fine del XVI secolo sulla porta laterale della Cattedrale, non abbiamo, infatti, precedenti raffigurazioni dei santi Martiri, se non qualche notizia relativa a dipinti, definiti molto degradati e non altrimenti descritti, e alle lamine di argento sbalzato che chiudevano le tre cavità dell'urna lapidea delle reliquie, tutte immagini ancora visibili in Cattedrale, allorchè, alla fine del Cinquecento, il vescovo Cospi la visitava. La mostra iconografica sui Santi Martiri biscegliesi (1994) permise a suo tempo a chi scrive di cogliere il filo conduttore che legava attraverso i secoli le immagini dei Santi e di ricanoscerne la enesi medievale della raffigurazione, intimamente connessa a prototipi coevi alla prima Invenzione delle reliquie, condotta con la sapiente e ispirata regia del vescovo Amando nel 1167, ed alla nascita del loro culto, altro non essendo le immagini che possediamo se non la debole interpretazione prospettica di una composizione che, tutta risolta su un piano, ignora la prospettiva. Tranne rare eccezioni settecentesche, essa appare costante, semplice e simmetrica, affiancando, a destra e a sinistra del vescovo S. Mauro, i due santi cavalieri Sergio e Pantaleone. Le variazioni, tutte inerenti la resa stilistico e cromatica, non intaccano mai lo schema, evidentemente radicatissimo nella tradizione e nella devozione locale, controllato dall'autorith ecclesiastica e, quindi, prescindibile: sobrio e rigoroso, romanico nell'impostazione, ancora bizantino nella iconica compostezza, romanzo nell'adozione del vessillo crociato da parte dei santi cavalieri. E' proprio la Cronaca che Amando scrisse a fornire ragguagli sul sorgere della loro immutata iconografia: una mattina dell'estate 1167, mentre le reliquie dei Santi, in attesa di essere traslate in Cattedrale, stazionavano nella chiesa di S. Bartolomeo, una donna di età avanzata, morigerata e sana di mente, nativa di Corato e quindi testimone disinteressata, vide, essendo ben sveglia, entrare da una porta della chiesa un giovane splendente, coperto da una veste luminosa, montato su un focoso destriero; non risulta chi fosse, se S. Sergio o S. Pantaleone, ma la visione fisso per sempre i connotati di entrambi. Parimenti è la Cronaca a narrare che i resti rinvenuti, corredati di un anello e di un frammento eburneo di pastorale, fossero del vescovo betlemita S. Mauro: lo rivelò un'indemoniata a contatto del sangue del martire. I singoli componenti il gruppo codificato trovano immediati referenti iconografici nelle fornelle raffiguranti gli Apostoli e i santi cavalieri Giorgio ed Eustachio, nella contemporanea porta bronzea di Bari, sono nella Cattedrale di Trani, città d'origine del vescovo Amando. E il dipinto in esame vi si attiene con scrupolo, rendendo, con mano corsiva e rapida tecnica compendiaria, positure e svolazzi dei manti; perfino le emergenze laterali del trono di S. Mauro altro non sono che una rivisitazione barocca dei turgidi terminali di un cuscino bizantino, ridotti in scarlatti e giustapposti braccioli a volute. Alle spalle del santo vescovo, una densa nuvolaglia lascia sgombro un tratto chiaro di cielo: vi si staglia il profilo di una città, in cui potremmo volenterosamente riconoscere la protetta Bisceglie, vista da terra; sulla destra, sembrano emergere dalle brume il complesso del bastione del Castello, dominato da un'alta e sottile Torre Maestra, ed il contiguo tratto di mura che va a concludersi a ridosso del remoto bastione di S. Martino; a sinistra, lo skyline vorrebbe probabilmente privilegiare le fumose emergenze del campanile della chiesa di S. Matteo e di quello, non ancora crollato, della Cattedrale, illustre vittima del terremoto del 1731.

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L'
altare che fronteggia la porta laterale fu dedicato a
S. Orsola. Ne abbiamo notizia dal testamento di Giovanni de Cillis, uno dei promotori della costruzione, il quale fondò un Beneficio pio laicale "consistente in vignali sette nella via d'Andria giusta li beni di Giovan Nicolo de Silva, li beni di Geronimo Vives ed altri confini con il peso di Messe settanta annue per l'anima di esso Giovanni nella Chiesa della Madonna della Misericordia, nell'Altare di S. Orsola o in altro Altare privilegiato", come da testamento per mano di Not. Sergio Maffione dell'anno 1657. Pur essendo andati dispersi tutti gli atti di questo Notaio, la notizia del Legato ci viene dall'elenco dei "Riveli dei Beneficiati e legatari" compilato nell'anno 1725 in occasione della S. Visita fatta da Monsignor Fra Antonio Pacecco Vescovo di Bisceglie. In tale periodo era possessore del Beneficio il Sacerdote D. Domenico de Cillis. Nel 1672 con il suo testamento (Not. Francesco Papagni, 18.11.1672) il Rev. D. Francesco Antonio de Cillis aggiungeva un altro legato pio consistente in un Forno nella strada detta del Largo, con il peso di far celebrare due Messe alla settimana, una nel giorno di sabato votiva della Beata Vergine, nella Chiesa della Madonna della Misericordia nell'Altare di detta SS.ma Vergine, e l'altra il giorno di Venerd́ nell'Altare di S. Orsola nella detta Chiesa, e nel giorno di S. Orsola un'altra Messa di detta Santa da celebrarsi eodem die dictae Sanctae Ursulae per l'anima di detto D. Francesco Antonio Fondatore. Dai citati appunti di Perotti apprendiamo che il Vescovo Sarnelli nel 1693 visitò l'altare di S. Orsola, con un quadro raffigurante S. Orsola, S. Antonio Abate e S. Rocco. Nel 1726 presso la Chiesa della Misericordia venne istituita la omonima Confraternita. Il Vescovo Pacecco, nel suo Diario, annotava che il 19 maggio 1726, dopo il Vespro, nella Sala del Palazzo Vescovile si fece l'elezione degli Ufficiali della nuova Confraternita ed il giorno successivo si recò personalmente a vedere l'opera fatta di stucco nella Chiesa della Misericordia, riferendosi, probabilmente, alle decorazioni in stucco che, nel 1935, furono distrutte sull'altare maggiore, sostituite da un moderno rivestimento in marmo, ma che sono tuttora presenti sull'altare.

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Allo stesso periodo risale anche la
lapide sepolcrale esistente al centro del pavimento della chiesa con la seguente iscrizione: IN HAC FOSSA / FRAT(RUM) CONFRATERNIT(ATIS) / S(ANCTAE) M(ARIAE) MATR(IS) MISERICOR (DIAE) / REQUIESCUNT OSSA / A(NNO) D(OMINI) 1726. Mons. Pacecco, nella S. Visita del 1733, dichiarava di aver ritrovato l'Altare dedicato alla Beata Vergine Madre di Misericordia in uno stato decente mentre prescriveva di ritoccare il quadro esistente sull'Altare di S. Orsola ed ordinava alla Confraternita di conservare le Bolle delle Indulgenze e della erezione della stessa Confraternita in una qualche cassetta. Attualmente, purtroppo, nell'archivio della Confraternita non vi è traccia nè di tali bolle nè del Regio Assenso concesso dal Re Carlo di Borbone nel 1750, di cui, fortunatamente, esiste copia in Archivio di Stato di Bari.

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L'
altare è realizzato in stucco, a parte la mensa lapidea, ha un paliotto di forma semplice e decorosa con clipeo centrale crocifero, croce gigliata e volute laterali di aggetto moderato; parimenti l'alzata e il sottarco presentano una decorazione a bassorilievo in stucco, elegante e sobria, ma ibrida, associando i riquadri tardo ottocenteschi del sottarco all'alzata settecentesca, campita da una vasta cornice quadrangolare a spigoli evidenziati, muta spia di un dipinto scomparso di cui si limita a tradire le dimensioni, percorsa sui fianchi da piacevoli motivi di volute e candelabre culminanti in una cimasa enfatizzata da conchiglia centrale, festoni di foglie e di frutti e dalla piccola tela in esame, chiamata a far parte del fastigio quando, nel 1726, tutta la chiesa fu interessata da una nuova decorazione; l'attuale tabernacolo è una tarda inserzione del primo Novecento, la cui cromia fu riproposta nei finti marmi dell'altare. Documentato fin dal 1657 da un lascito destinato alla celebrazione di Messe in suffragio, l'altare di S. Orsola viene citato nella perduta Santa Visita sarnelliana del 1693, dove e descritto corredato di un dipinto raffigurante la Santa titolare, Sant'Antonio Abate, antico protettore di Bisceglie, e San Rocco, di conclamata efficacia nella protezione dalle pestilenze. Dell'opera, che nel 1733 il vescovo Pacecco faceva ritoccare, si è persa ogni traccia e a connotare l'altare rimane l'ovale in cima, raffigurante la Santa, munita di gonfalone, suo consueto attributo. La storia da epopea cristiana di S. Orsola e delle undicimila Vergini sue Compagne fiori ai primi del XII secolo intorno alla tomba di una fanciulla, rinvenuta presso Colonia: Orsola, figlia del re di Gran Bretagna, era stata richiesta in isposa dagli ambasciatori di un re pagano; la giovane principessa pose come condizione al suo assenso la conversione del futuro sposo ed un viaggio a Roma. Imbarcatasi con un seguito di dieci fanciulle nobili, ciascuna accompagnata da mille vergini, compie il suo viaggio, ma al ritorno, lungo il Reno, presso Colonia, la flottiglia viene assalita dagli Unni e tutte le giovani vengono massacrate, colpite dalle frecce. Fu tramite Venezia che il culto si diffuse sulle coste adriatiche dal Trecento in poi; S. Orsola e protettrice dei pannaioli, delle orfanelle ed e invocata contro l'emicrania. Il dipinto, nonostante le modeste dimensioni, non e privo di carattere. Il bell'ovale del volto della Santa, l'acconciatura a lunghe morbide ciocche attorte che seguono il profilo del collo, il drammatico taglio trasversale dato alla composizione dall'asta dello stendardo che la divide drasticamente in due parti in forte contrasto cromatico, facendo risaltare sul buio compatto del fondo gli intensi colori dei panni ed il luminoso candore delle carni, parlano di un pittore di buona mano, esperto dei modi di un giordanesco come il napoletano Giovan Battista Lama (1673-1748). L'altare di Sant'Orsola, privato del suo dipinto, fu abbrutito dall'inserzione di una edicola, recentemente rimossa, destinata ad accogliere l'opera più amata della chiesa, legata alla committenza confraternale, oggi venerata nella nuova chiesa della Misericordia.

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La
statua lignea dell'Ecce Homo traduce perfettamente il passo del Vangelo di Giovanni (19,1-5) che narra il celebre episodio della Passione: dopo la scelta popolare di Barabba, "Pilato fece prendere Gesu e lo fece flagellare, i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: "Salve, re dei Giudei!". E gli davano schiaffi. Pilato intanto usci di nuovo e disse loro: "Ecco, io ve lo conduco fuori, perchè sappiate che non trovo in lui nessuna colpa". Allora Gesù usci, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: "Ecco l'uomo!". Il Cristo, mirabilmente scolpito, si staglia sul rosso del manto che gli scivola lungo il braccio sinistro dietro la schiena, il perizoma gli si incrocia davanti in un semplice nodo piatto, la corona di spine è calcata sulla fronte, il viso e contuso dagli schiaffi e il corpo e lacerato dai flagelli, nella mano destra regge una canna, lo scettro regale che i soldati della coorte romana gli hanno consegnato per dileggio, secondo Matteo (27, 26-30), e con cui gli hanno percosso il capo, secondo Marco (15, 15-19). La Puglia sei-settecentesca vanta una larghissima presenza di statue lignee di alto livello qualitativo, spesso commissionate a Napoli, capitale del Regno, o prodotte in loco da artisti di ingegno che a Napoli avevano condotto il loro apprendistato presso le migliori botteghe. Particolarmente frequentata dai committenti pugliesi fu la bottega di Giacomo Colombo, operoso tra il 1688 ed il 1731, valente scultore, comprimario del pittore Francesco Solimena nella Napoli barocca; dotato allievo del Colombo fu Nicola Antonio Brudaglio (1703 c.a - operoso fino al 1788), nativo di Andria e capostipite di una famiglia di scultori; dal Maestro apprese l'eleganza sapiente della composizione ed il gusto per un panneggio vibrante e mosso, l'espressività sentita è accorata dei lineamenti dei volti e l'indubbia raffinatezza dell'esecuzione. L'osservazione della nostra statua consente una ragionevole attribuzione alla sua mano, per le strette analogie che è possibile cogliere con alcune delle sue opere firmate, a lui attribuite, sia di altro soggetto, come il S. Liborio della Cattedrale di Manfredonia o il S. Rocco della Collegiata di S. Maria della Natività a Noci, sia, veramente palmari, con sculture di soggetto affine o analogo al nostro, come il magnifico Cristo alla colonna della Cattedrale di Manfredonia, dove volto, anatomia e panneggio incrociato del perizoma basso sui fianchi hanno un rapporto fraterno con 1'opera in esame, o i mezzi busti raffiguranti l'Ecce Homo, nella chiesa di S. Giovanni a Rocchetta S. Antonio e nella chiesa di S. Maria Stella Maris a Manfredonia, quest'ultimo una sottile variazione su tema che si coglie scorrendo con lo sguardo i lunghi capelli mossi intorno alle orecchie, i lineamenti sottili e contratti, le labbra aride dischiuse sui denti, i riccioli attorti e divisi della barba, l'angoscia negli occhi, le mani incrociate su un fianco, le braccia ed il busto piagati, senza che ne vada perduta l'intuibile tornita bellezza. La scultura lignea policroma dovette il suo straordinario successo da un canto al rigorismo controriformista spagnolo intriso di una devozione dai forti accenti emotivi e, dall'altro, al suo porsi come erede diretta delle Sacre Rappresentazioni; se le statue di dimensioni ridotte si prestano ad una devozione privata e raccolta, quelle ad altezza d'uomo nascono spesso destinate alle processioni e, oggetto di un culto particolarmente appassionato, perpetuatosi in molti casi ai giorni nostri, legate ai riti della Settimana Santa. Il percorso notturno e solitario seguito dall'Ecce Homo della Misericordia al Venerdì Santo è sempre ben vivo nella memoria locale, solo negli ultimi decenni sostituito da una corale Via Crucis serotina che coinvolge tutte le statue biscegliesi dei Misteri, in suggestiva sequenza.

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Fu probabilmente la necessità di condurre in processione l'affresco non era stato ancora staccato - a produrre la commissione del bel La
gruppo in cartapesta, datato 1914 è firmato da Raffaele Caretta (1871-1950), leccese, cavaliere pro ecclesia, prolifico e valente modellatore, allievo di altri due rinomati Maestri, quali il Maccagnani ed il Manzo. La cartapesta leccese è un fenomeno di grande interesse; non si sa bene quando ne sia cominciata la produzione, sta di fatto che la tecnica differisce da quella francese o tedesca. Gli esemplari più antichi documentati risalgono al XVII secolo, ma il trionfo di questo artigianato altamente qualificato, che raggiunge spesso livelli artistici indiscutibili, si ha nel Settecento e procede per tutto il secolo successivo. Le statue policrome hanno le qualità plastiche della migliore scultura lignea contemporanea, con l'aggiunta di una maggiore leggerezza e di costi più contenuti. Sorprende che l'iconografia del nostro gruppo scultoreo non abbia nulla in comune con quella del dipinto murale; alle soglie della Grande Guerra, evidentemente non basta più intuire l'attitudine misericordiosa della Vergine dalle sue materne effusioni verso il Figlio, occorre raffigurarli entrambi in attiva partecipazione all'umana miseria; la Madre, bellissima e senza sorriso, consapevole dei mali del mondo, ed il Bambino che reca su un braccio sono rivolti verso il devoto prostrato, col cappello posato sul terreno ed indosso una corta tunica all'antica, da personaggio da presepe, relegando l'azione di grazia in un tempo non definito, remoto, perfino idillico e quindi eternamente presente, e rassicurante. Notevoli l'eleganza dei fluidi panneggi delle vesti della Vergine e la delicatezza dei tratti del suo volto. Ad accogliere la statua era stata predisposta nella chiesa, dall'Anno Santo 1900, in pietra e stucco, commistione non spiacevole di stili, vagamente neoclassica per le colonne e il fastigio, neo barocca per i putti recanti rose e cartiglio.

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Al contrario della maggior parte delle opere in esame, il
dipinto non ha una sua propria collocazione all'interno della chiesa, non un altare o una cornice in stucco che ne definiscano la posizione e non e noto come e quando vi sia giunto, nè da chi sia stato voluto o donato. E' tuttavia un'opera interessante e la più antica che la chiesa possa vantare. Si tratta di una Sacra Famiglia allargata a comprendere il piccolo S. Giovanni, raffigurazione che non si rifà a nessun Vangelo, canonico o apocrifo - l'incontro tra Gesù e S. Giovanni narrato dai Vangeli e da adulti, presso il fiume Giordano - ma a pie meditazioni francescane, dando luogo a incantevoli quadretti idilliaci tra i secoli XV e XVI; sono le Meditazioni dello pseudo Bonaventura a raccontare che, al ritorno dalla Fuga in Egitto, la Sacra Famiglia si fermò da Elisabetta e che i due Bambini giocavano insieme e che il piccolo Giovanni, come se già sapesse, era rispettoso verso Gesù. Nel nostro dipinto, la Vergine e in atto di allattare, un antico tema di origine bizantina, in un certo senso in sintonia con la dedicazione della chiesa: la Galaktotrophousa, Vergine nutrice o Madonna del Latte, soggetto slittato nella Madonna della Grazia o delle Grazie, dilatando la generosita materna di Maria all'umanita intera. I dati compositivi e cromatici collocano la tela in un ambito culturale ben definito: nel XVI secolo la Puglia e in stretti rapporti con la cultura adriatica, soprattutto veneta, e dal Veneto affluiscono opere numerose, commissionate a pittori di fama di diversa chiarezza; l'autore del nostro dipinto mostra di essere fortemente influenzato da un pittore di controversa fortuna, riconosciuto fra i grandi per l'originalita e la complessitagrave, Lorenzo Lotto (Venezia 1480 c.a - Loreto 1556). L'attivita di questo pittore si svolse soprattutto nel Bergamasco e nelle Marche, di qui la remota possibilita che il dipinto possa essere stato donato alla chiesa nascente proprio dal vescovo Gaddi, che nelle Marche aveva operato prima di approdare alla diocesi biscegliese. Ovviamente e soltanto un'ipotesi: un vecchio dipinto gia in possesso del vescovo e che più tardi non fu trovato confacente alla nuova decorazione settecentesca della chiesa, finendo malinconicamente relegato in un ambiente interno. Tra le caratteristiche del Lotto vi e una sorta di rinnovato spirito medievale ed il nostro dipinto presenta piu di uno spunto iconografico in questo senso, oltre a quanto è stato già detto sul tema generale: il S. Giovannino, che indossa un lembo di pelo di cammello, attributo che anticipa il suo abbigliamento da adulto, ha nella mano levata un uccellino che sottrae ad un gatto, in posizione rampante nell'angolo destro, mentre il piccolo Gesù lascia un attimo il seno materno per osservare la scena. In genere e il Bambino Gesù ad essere raffigurato con in mano un uccellino, un passero o un cardellino, anzi e un'immagine antica e frequente: si vedano, nella stessa Bisceglie, le tavole della Madonna col Bambino gi&agrae venerate nei casali di Giano e Zappino e quella attribuita a Palvisino nella chiesa di S. Luigi. Al cardellino, che prende nome dalla sua frequentazione delle piante spinose del cardo, e stato associato un significato legato alla Passione di Cristo che, quindi, prefigura, così come il gatto, in virtù di una negativa tradizione popolare, e stato identificato come un rappresentante delle oscure forze del male e, come tale, compare talvolta in raffigurazioni religiose, in atto di spiare le mosse di un cardellino, subdola minaccia per l'umanità, il cui riscatto è dipeso dal sacrificio del Cristo. Ma, piu probabilmente, il tema in origine rinviava ad un gentile episodio dell'Infanzia, narrato nel Vangelo apocrifo di Tommaso, laddove il piccolo Gesù plasma col fango di un torrente passerotti che prendono il volo al battito delle sue mani; e evidente l'allusione alla divinità di Gesù, che si esprime nella facoltà di creare, nel caso particolare di infondere vita in esseri plasmati col fango, ed alla conseguente qualità della Vergine, dichiarata Madre di Dio nel Concilio di Efeso (431). Un cenno ulteriore alla tradizione bizantina è possibile cogliere nella fascia purpurea del Bambino, in parte srotolata sul tavolino accanto alla Vergine e che rimanda alla regalità del Signore (Porfirogeniti, nati nella porpora, erano detti gli imperatori bizantini). Ed ancora ad una tradizione iconografica antica rinvia la cesta da lavoro sul pavimento, consueta presenza accanto alla Vergine nell'Annunciazione; qui, oltre al libro di preghiere, frequente nelle raffigurazioni occidentali, troviamo appuntato su un bel cuscino con le nappe un ago con una lunga gugliata di filo con cui la Vergine, prima di interrompersi ed allattare il Bimbo, stava orlando un telo bianco. E ancora ai vangeli apocrifi, questa volta al Protovangelo di Giacomo, che dobbiamo la raffigurazione della Vergine intenta al lavoro, più spesso a filare, meno frequentemente a cucire, tema adottato in area siropalestinese e copta, diffuso in area balcanica e trasmigrato nell'Italia adriatica, come nel bell'esempio duecentesco della chiesa di S. Benedetto a Brindisi. Il Lotto era nato a Venezia, fu contemporaneo di Tiziano e Giorgione, ma la sua fu un'espressione antitetica rispetto al classicismo tizianesco ed al caldo colore tonale giorgionesco; fu piuttosto attratto dalla pittura nordica (Durer) ed amo i forti contrasti dei colori timbrici e lucidi, impiego la luce per rendere plastiche e concrete le figure, facendola procedere da un punto ben preciso, spesso da destra; i suoi interni sono veri interni non idealizzati, in cui ama scandagliare i particolari: si osservino, nel nostro dipinto, la zana pronta col suo cuscino ben teso e la coltre scostata sulla destra, la tenda sollevata sul riquadro della finestra aperta su un freddo paesaggio nuvoloso, il leggio accostato al davanzale sul pavimento di cotto, quasi a voler ricordare quanto poco tempo sia trascorso dall'Annunciazione, di cui il dipinto presenta i risultati e lascia intravedere le conseguenze; le sue composizioni assunsero sempre un tono non aulico e staccato, ma familiare ed intimo, addirittura popolare, creando tra le figure rappresentate un palpabile stato emotivo. Nella diagonale luminosa che trascorre il dipinto, e si incentra sul nodo del Bimbo al seno della Vergine, si giocano i rapporti tra i protagonisti con sottile penetrazione psicologica: S. Giuseppe contempla con affettuosa malinconia il gruppetto che sembra proteggere, la Vergine non ha occhi che per il Figlio, i Bimbi sono intenti al piccolo dramma che ne prefigura un altro che li attende da grandi e li vedrà compartecipi. L'ignoto autore del dipinto si e fatto interprete dello spirito del Lotto, oltre che attenersi al suo taglio compositivo e ad ispirarsi ad alcune sue tipologie fisiognomiche, come l'ampia stempiatura bionda del piccolo Gesù e l'obliquo taglio degli occhi nel volto senile del barbuto S. Giuseppe, sapienti citazioni che, con il ricercato contrasto del verde e del rosso delle vesti della Vergine e la fredda luce nordica del paesaggio remoto, rendono felice il primo impatto col dipinto, relegando ad un momento secondario la percezione di alcune cadute nella resa formale.

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Già conservata nella sacrestia della chiesa,
la piccola tela raffigura una delle Sante da sempre più venerate dell'intera Cristianità. Martirizzata ai primi del IV secolo, universalmente nota come protettrice della vista e quindi raffigurata recante un paio di occhi su un piccolo vassoio, S. Lucia deve proprio a questa sua singolare iconografia la pia leggenda dei propri occhi strappati e miracolosamente ricomparsi. In realtà l'antica storia della sua vita la dice si sottoposta a vari supplizi - lupanare, fuoco, decapitazione per aver ella osato tener testa al pagano Pascasio nella natia Siracusa, ma la sua particolare prerogativa nasce dall'assonanza del suo nome con la 'luce' e da una sua frase nobilmente pronunciata sotto la minaccia dei tormenti: "Faro vedere ai credenti in Cristo la virtù del martirio e ai non credenti toglierò l'accecamento della loro superbia". Il suo patronato non tardo ad estendersi dalla 'vista' spirituale a quella fisica. Il dipinto in esame e una modesta opera di devozione privata, ma e sintomatica di un particolare gusto raffigurativo, proprio degli ultimi decenni del Settecento, diffuso in tutta Europa, ma che, nel nostro caso, ha Napoli come prossimo referente. Fin dai primi decenni del secolo si era avvertita una certa stanchezza per l'ornamentazione rococò e, di contro alla sua frivolezza, era subentrata l'esaltazione della nobiltà e della semplicità degli antichi, incentivata dapprima dalla scoperta di Villa Adriana a Roma, poi di Ercolano (1738) e di Pompei (1748) nel Regno delle Due Sicilie; ma e soprattutto dagli anni '80, con le sempre più frequenti e prestigiose pubblicazioni dei reperti, l'arrivo sempre più fitto di artisti stranieri, attratti dai ritrovamenti archeologici, con il moltiplicarsi di collezionisti, estimatori e mercanti di antichità, con la cultura di corte, dominata a Napoli dalla regina Maria Carolina, che la sempre latente ammirazione per l'antico si fa gusto generalizzato, moda imperante. Il nostro dipinto presenta quindi la giovane martire, la palma del martirio nella mano, lo sguardo volto in alto, da dove proviene il fiotto di luce che l'avvolge, in vesti all'antica, diadema sul capo, manto appuntato da una fibula, volto levigato da cammeo; unica nota che lo lega ad un più mosso comporre, che nell'ambiente napoletano seppe resistere a lungo, e il manto rigonfio, drappeggiato con opulenza intorno al puro candore della veste; la piccola opera ha grazia e decoro e, in tono minore e provinciale, propone quel che aveva fatto, a Napoli, un F. Fischetti, per un verso erede della grande tradizione locale decorativa tardo rococò e per un altro attratto dai modi di un Mengs, pronto ad associare a mai sopiti ricordi raffaelleschi gli stimoli della nuova classicità ritrovata.

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Gli ex voto dipinti rappresentano il filo diretto fra il sacro ed il quotidiano, sono la presa d'atto di una relazione strettissima e vincolante tra il Cielo e la Terra, sono exempla che non hanno bisogno di spiegazioni ulteriori per rassicurare sulla partecipazione degli abitanti celesti alle miserie e ai bisogni degli uomini, e inducono a sperare. Sono il segno di un bisogno ancestrale - anche nei templi pagani si dedicavano ex voto, tavolette dipinte e riproduzioni delle membra risanate - di richiesta d'aiuto alle potenze superne e di attestazione di gratitudine, ottenuto il favore impetrato. Questo e il loro ruolo primario, ma, indirettamente, forniscono dati preziosi, da cronaca, sul momento storico che li ha prodotti; sono una scena aperta, senza i velami conformisti dell'arte aulica, sul costume sociale e sui costumi d'ogni giorno, piccole scene di genere, senza nessun intento estetico, e quindi immediate e sincere.

Un
exvoto come il nostro e un documento efficace sotto molti aspetti; e talmente analitico da avere il valore di un'istantanea: la chiesa della Misericordia, col suo portico, il campaniletto a vela e la banderuola in cima alla cupola, e libera tutt'intorno, l'erba cresce alla base, dove il terreno declina dolcemente come oggi, aneorchè irrigidito dall'asfalto; belli alcuni dettagli, colti con l'occhio sensibile di un vedutista, la casa rurale, con l'attento gioco di ombre e di luci, l'arcata a bugne che dà accesso allo spazio cintato, le ultime propaggini della città lontana; in alto, la minuscola immagine della Madonna della Misericordia, l'affresco venerato nella chiesa, in una nuvola più densa nel vasto cielo turchino. La zona inferiore del dipinto brulica di figurette vivaci: popolani e popolane ritratti nei loro panni pieni di colore, bambini, borghesi, militari dalle divise borboniche ben descritte - uno imbraccia il fucile con la baionetta innestata per sedare le donne vocianti - un francescano questuante, un prete che ha interrotto la sua passeggiata fuori porta, la folla che avanza dal fondo e da sinistra, su percorsi riconoscibili; chi spiega, chi si informa, chi osserva indolente e sfaccendato, come il gruppetto seduto sul muro, chi si dispera, chi si raccoglie in un dolore silenzioso, come la donna dai capelli sciolti presso i corpi dei due ragazzi gia tirati fuori dalla cisterna e allineati sul terreno, chi esulta, mentre il giovane graziato, pallidissimo, e sollevato a braccia fuori dalla bocca del pozzo, per terra le funi servite ad imbragarlo; una donna accorre ad inginocchiarsi a braccia levate sul sagrato della chiesa, e lei il tramite fra il divino e l'umano, la Vergine e l'evento. Un'iscrizione spiega: "Francesco La Notte cadde nella cisterna. Due Fratelli di lui accorsi e successivamente ivi discesi per dargli aiuto vi morirono. Egli per grazia speciale di Maria SS.della Misericordia ne fu (tratto) vivo il di (..) Ottobre 1844" e, più in basso: "Rifatto a devozione di Domenico La Notte del fu Francesco". Il sentimento del miracolo, la sensazione profonda di essere stato privilegiato devono aver accompagnato Francesco per tutta la vita, si da trasmettersi intatti alla generazione successiva e stabilire la necessita che del fatto non si perdesse, mai, la memoria.