Su tutta la sperimentazione, la TPE dell’ing. Gianfranco Liuzzi ha realizzato quattro videotapes: "Il linguaggio dell’immagine", "Nuove tecnologie nella scuola elementare", "Rilievo e diagnosi" e "La rappresentazione in architettura e urbanistica", da cui sono state prese quasi tutte le immagini riportate su questo libro. Per quel che concerne i risultati della sperimentazione stessa, c’è da dire che se, da una parte, sono stati di estremo interesse per la ricerca, dall’altra non sono stati affatto presi in considerazione dalla struttura scolastica. Riesaminata a distanza di dieci anni la sperimentazione, sull’insegnamento della fotogrammetria presso la scuola elementare Balilla, appare come un autentico blitz, probabilmente reso possibile dal fatto che il responsabile della ricerca era al contempo rappresentante dei genitori nei Consigli di classe e di Circolo. Sulla stessa sperimentazione, presso il complesso di S. Scolastica è stato tenuto un seminario, cui sono stati invitati i genitori dei piccoli, ma di questi non tutti si sono dimostrati favorevoli: un padre si dichiarò persino contrario all’uso del computer nella scuola elementare. Tra i ricordi indelebili vi è la frase pronunciata dalla madre di un alunno della 2° classe: "beato lei, professore, che può perdere tanto tempo!". E’ emersa chiaramente la mentalità dei genitori, abituati, spesso in nome dell’ignoranza, ma più spesso in nome della mancanza di tempo, a delegare a terzi la formazione dei propri figli. Coinvolgere gli adulti nella sperimentazione, per consentire ai ragazzi di giocare a casa, non se ne parlava nemmeno! Lo studio ed il gioco sono due cose distinte, il primo è sacrificio ed è finalizzato all’acquisizione di un "pezzo di carta" (il diploma o la laurea), mentre il secondo serve ad impegnare il bambino quando rischia di... infastidire i genitori. Nello studio il bambino viene seguito (anche troppo), mentre nel gioco è un autodidatta! Tutta la sperimentazione è stata presentata come un gioco, e, quindi, è stato facile, agli oppositori, farla apparire come un’attività lontana dai programmi scolastici. Ma prima di chiudere questo paragrafo è opportuno illustrare nei particolari il progetto. Innanzitutto questo non era frutto di improvvisazione, ma quanto programmato veniva puntualmente verificato e, di volta in volta, addattato alla realtà. Quale responsabile della ricerca e, a conferma della convinzione con cui agivo, avevo la possibilità di verificare i risultati tramite i miei figli: Dario e Davide, che frequentavano, rispettivamente la quarta classe e la seconda classe. A casa il computer era entrato quando i miei figli avevano 5 e 7 anni e si era presentato sotto le vesti di un videogioco, che, grazie ad una tastiera, poteva essere programmato. Dopo i primi tentativi di modificare i videogiochi, si era giunti all’idea di costruire un piccolo robot, il cui cervello sarebbe stato proprio il computer. Il nome era stato già scelto ed era RUN: bastava premere questo tasto e sullo schermo appariva la scritta: "chi sei?". Se la risposta, fornita tramite tastiera, era Dario o Davide, RUN avviava un colloquio con una serie di domande, le cui risposte, per un padre, erano facilmente prevedibili. In caso contrario, qualunque fosse il nome fornito, rispondeva "non ti conosco, non parlo con te". Per colloquiare con RUN era necessario leggere e scrivere e i due fratellini, pur di scoprire come mai il computer sapesse tutto di loro, facevano a gara per "leggere e scrivere", dedicandovi un tempo non facilmente immaginabile. Dei due, chi ha dovuto scoprire, presto e a proprie spese la differenza tra il computer e l’umanoide, è stato il piccolo, quando, a scuola, ha dovuto scrivere i primi pensierini: nientemeno la maestra pretendeva che perdesse tempo a disegnare quei caratteri, che il computer mostrava in modo perfetto, al semplice tocco di un tasto. Era come pretendere l’uso del telegrafo da chi è abituato a usare il fax! Non è difficile immaginare quali siano stati i risultati di questo scontro: la maestra lo ha considerato portatore di handicap e lo ha fatto sottoporre ad apposita visita che, per fortuna, ha dato esito negativo! L’approccio alle costruzioni LEGO non è stato molto diverso. Le prime casette, costruite seguendo attentamente le istruzioni allegate, non hanno rappresentato mai degli "oggetti volanti", ma sono state subito fissate su di un piano di dimensioni non trascurabili. Non è stato difficile quindi far sorgere la necessità di tracciare dei collegamenti stradali o ferroviari fra le stesse. Il problema della pianificazione territoriale era più che naturale: dopo numerosi montaggi e smontaggi di tutti gli elementi sul plastico (i binari curvi in particolare, arrivavano puntualmente, dove era stato già costruito qualcosa!). E’ parso più semplice ricorrere ad una rappresentazione grafica, che senz’altro richiedeva meno tempo. Il plastico riportato in figura ha richiesto mesi di lavoro ed era in continua evoluzione: peccato che non sia stato fotografato in occasione di ogni trasformazione! E’ difficilissimo descrivere tutti i problemi che sono stati affrontati e risolti. Per far muovere e guidare i trenini è stato necessario chiarire alcuni concetti di elettrotecnica: la differenza tra corrente continua e corrente alternata, il voltaggio, la potenza elettrica. Il "ciuff-ciuff" andava a batteria e aveva il vantaggio di camminare comunque. L’elettrotreno doveva prendere corrente da una linea elettrica esistente sui binari, ma poteva: fermarsi su comando, accelerare, rallentare, invertire il senso di marcia, accendere le luci! Moltissimo tempo ha richiesto l’attivazione del passaggio a livello automatico: non solo gli sforzi sono stati coronati da successo, ma si è capito che l’automatismo non è un fatto miracoloso! Alcuni concetti di statica o di meccanica, poco chiari allo studente universitario, possono essere appresi facilmente se affrontati nella scuola primaria: ciò di cui un bambino ha bisogno è un riscontro pratico di ciò che ascolta. La costruzione di una semplice gru ed il suo ribaltamento per un carico da sollevare, può portare al chiarimento di concetti quali momento agente e momento reagente: il difficile non è capire i termini, ma perché la gru si ribalta e, dopo una serie di tentativi, il bambino è in condizioni di scoprire che è necessario bilanciare il carico con un altro peso. Per riordinare e chiarire sul piano teorico questi esperimenti c’è tempo nella scuola superiore e un intervallo di tempo può essere, persino, indispensabile alla sedimentazione di quanto appreso. Altro esempio è la comprensione del meccanismo di biella e manovella: è sufficiente fargli costruire un qualsiasi modellino, per il cui funzionamento questo meccanismo è indispensabile, ed il bambino riuscirà sicuramente a realizzarlo. La scomposizione ed il calcolo delle forze saranno oggetto di studi superiori, se necessario. Indubbiamente questo tipo di didattica richiede che il docente non solo si aggiorni continuamente, ma che accetti, ogni tanto, di essere superato dagli alunni, specie da quelli ritenuti terribili! Abbandonando ogni tipo di riflessione e tornando alla cronaca della sperimentazione, il programma prevedeva la continuazione nella scuola media. Su due quinte classi, contavo di poter proseguire la sperimentazione con almeno una decina di ragazzi, che si erano iscritti alla scuola media "Gimma", dove avevo scritto anche mio figlio. Il programma, che mi sono premurato di presentare al preside, prevedeva il coinvolgimento di tutte le discipline nello studio di un elemento della realtà territoriale, cui la scuola apparteneva. La risposta è stata negativa! Il tentativo di ricorrere alla solita scalata politica, come rappresentante dei genitori, è stato vanificato dalla dispersione dei ragazzi provenienti dalla scuola Balilla: non c’era una sola classe dove ve ne fossero due! Un tentativo di continuare la sperimentazione è stato fatto con l’insegnante di applicazioni tecniche, ma solo per brevissimo tempo.

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