Quando parliamo di fotografia tridimensionale o stereo, ci riferiamo sempre ad una coppia di fotogrammi (scattati da due punti distinti), la cui simultanea osservazione consente la percezione dell’immagine tridimensionale dell’oggetto fotografato. I metodi cui l’uomo fa ricorso per l’osservazione dell’immagine fotografica tridimensionale sono molti: alcuni richiedono strumenti più o meno sofisticati, altri un semplice allenamento. In questa sede, però, ci interessa innanzitutto comprendere il meccanismo cui il nostro cervello fa ricorso quando effettua l’analisi dimensionale. Cominciamo con l’esaminare l’apparato ottico, cioè l’occhio, il cui funzionamento viene spesso assimilato a quello di una macchina fotografica: esso, infatti, è una particolare camera oscura dotata di obiettivo (cristallino), di un diaframma (iride) e di una superficie sensibile (retina); mancano, però, l’otturatore e la possibilità di fissare l’immagine, quindi a pensarci bene potremmo paragonare l’occhio ad una telecamera, ma c’è ancora un’altra caratteristica che non possiamo assolutamente trascurare ed è la continua mobilità dello stesso. In realtà la sensibilità della retina non è uniforme ed è massima in un particolare punto (fovea), il quale, proprio grazie alla possibilità di rotazione del bulbo oculare, viene continuamente spostato nelle zone più interessanti dell’immagine proiettata. Il raggio proiettante, passante per esso, prende il nome di asse visuale. Nel fare l’analisi dimensionale di un qualsiasi oggetto, il cervello fa ricorso a diversi metodi di rilievo: prospettiva, confronto delle due immagini proiettate sulla retina ed triangolazione. Dei tre, i primi due servono essenzialmente per individuare gli elementi da analizzare, mentre il terzo rileva la posizione dei punti osservati mediante un’autentica triangolazione avente per base la distanza tra i centri di rotazione dei bulbi oculari e per vertice l’intersezione degli assi visuali. Per la verità non è che il cervello misuri, per ogni punto, gli angoli formati dagli assi visuali con la base ed effettui i relativi calcoli per ricavare le tre coordinate in un sistema di riferimento cartesiano ortogonale, ma memorizza continuamente i dati dopo averli sottoposti a verifica. Per esempio il bambino, nei primi mesi di vita, prima di riuscire a prendere un oggetto, deve elaborare un proprio programma di rilievo. Ammesso che entrambi gli occhi siano funzionanti, prima di avviare le operazioni di presa, egli deve individuare la posizione dell’oggetto che lo interessa e per far ciò può:
- far ricorso alla prospettiva; ma deve aver già memorizzato le dimensioni dell’oggetto osservato, altrimenti crederà di aver a portata di mano un aeroplano, che appare piccolo solo perché è molto lontano;
- utilizzare la stereoscopia; ma deve aver acquisito tanta esperienza da essere in grado di stabilire la distanza di un oggetto sulla base della differente larghezza delle due immagini proiettate sulla retina dei propri occhi;
- effettuare la triangolazione; ma deve aver già memorizzato la legge di variazione dell’angolo formato dagli assi visuali in funzione della distanza del punto osservato.
Evidentemente il programma di rilievo non viene elaborato dal cervello sulla base di calcoli matematici o di rappresentazioni grafiche, ma piuttosto con una serie di tentativi i cui risultati costituiscono la banca-dati indispensabile per qualsiasi nuova esperienza. Quando si presentano nuove situazioni, il nostro cervello torna a comportarsi come quello del bambino; per convincercene cimentiamoci in un semplice esperimento, chiedendo ad un nostro interlocutore di poggiare la punta di una matita su quella di una simile, che noi teniamo in mano all’altezza dei suoi occhi. Se la persona da noi sottoposta all’esperimento tiene entrambi gli occhi aperti, non avrà alcuna difficoltà a toccare la punta con la propria matita, ma se gli chiediamo di tenere un occhio chiuso, dovrà fare più tentativi per compiere l’operazione. Dopo i primi fallimenti tenterà di osservare la matita (e quindi di rilevarne la posizione) con entrambi gli occhi prima di chiuderne uno per ripetere il tentativo, oppure sposterà la matita lungo il proprio asse visuale fino ad incontrare l’altra: insomma il suo comportamento non sarà molto diverso da quello del bambino. Se vogliamo mettere ancora in crisi il sistema di rilevamento del nostro interlocutore, possiamo chiedergli di poggiare la punta della matita su di un filo che avremo cura di tendere all’altezza dei suoi occhi nel piano degli assi visuali. Anche in questo caso, nonostante il ricorso alla visione binoculare, il suo cervello non riesce ad effettuare la triangolazione: infatti la superficie uniforme del filo non gli consente di individuare un particolare punto su cui far convergere gli assi visuali, il cui angolo è indispensabile per determinare la distanza. Se invece disponiamo il filo verticalmente, il nostro interlocutore non avrà alcuna difficoltà: infatti, abituato com’è a conservare la complanarità degli assi visuali, li farà convergere facilmente sul punto intersezione del filo con il piano da essi determinato.